26 Aprile 2020 - Giulia Carletti - Divulgazione

Ecomusei e alternative: Intervista a Cristina Alga, co-fondatrice di Mare Memoria Viva

L’ecomuseo Mare Memoria Viva, conosciuto come “ecomuseo del mare” e situato presso la costa sud-est della città di Palermo, nasce nel 2014, come progetto finanziato a CLAC dalla Fondazione CONILSUD in partnership con il Comune di Palermo (Ass.to alla Cultura con Francesco Giambrone). Con più di 1200 mq di superficie occupa gli spazi di un ex deposito di locomotive ottocentesco e oggi, tramite questa partnership pubblico-privata, è gestito nelle attività dall’associazione non-profit Mare Memoria Viva, spin-off di CLAC. Il museo inoltre ha stipulato il “patto di collaborazione educativa”, in contrasto alla povertà educativa.

Cristina Alga, co-fondatrice di CLAC e coordinatrice del gruppo di lavoro del MMV, ci ha raccontato la storia e le difficoltà di un ecomuseo e ci ha parlato delle attività didattiche e dei progetti che vengono portati avanti, sperando lei in una bella ripartenza futura e noi nella capacità di ispirare tutti quei territori che appaiono privi di spazi pubblici e culturali.

Intanto qual è la differenza tra ecomuseo e un museo normale? Che concetto si ha di patrimonio? E quindi perché Mare Memoria Viva rientra in questa categoria?

Gli ecomusei possono rientrare anche nella categoria dei cosiddetti “musei di comunità e del territorio”. Rispetto alla museologia tradizionale è un museo partecipativo, cioè creato dall’azione collettiva di più persone. Questo essere museo di comunità può declinarsi in due modi. Uno è quel museo dove è la comunità stessa che si racconta. Un altro invece può essere un museo che ha come oggetto storie, tradizioni e testimonianze di una determinata comunità territoriale. Noi pensiamo che essere musei fino in fondo significhi anche essere musei collettivi e dare voce direttamente alle persone. Una differenza infatti sta nel fatto che se il museo tradizionale ruota attorno a una collezione, nell’ecomuseo non sono così importanti gli oggetti. Dico sempre ai bambini che noi in un museo ci aspettiamo di trovare delle cose preziose che hanno un determinato valore, che si possono “toccare”. Noi invece abbiamo delle storie: e le storie sono preziose? Noi ragioniamo su questo.
Un altro aspetto ancora dell’ecomuseo è quello legato alle dinamiche di partecipazione nella creazione, nella raccolta di storie, di documentazioni, e anche di oggetti con cui il museo di offre. Poi c’è anche la partecipazione alla gestione e alla fruizione del museo stesso. Hugue De Varine, il più importante teorico degli ecomusei, penso che voglia dire questo quando definisce un ecomuseo come “patto tra cittadini che vogliono prendersi cura del territorio”. In questa accezione si sottolinea l’aspetto della partecipazione nella gestione, nel fare: nel diventare un luogo di comunità.

Che cosa vuol dire “audience engagement” per voi e come implementate in concreto questa gestione partecipata? 

In generale direi che la comunità può entrare in gioco in vari modi, anche a livello giuridico. Il nostro è un caso – se vogliamo fare una scala della partecipazione da 1 a 10 – da 5. E cioè c’è partecipazione dal basso, ma questa risiede soprattutto nel nucleo che adesso ha l’accordo con il Comune di Palermo per la gestione dell’ecomuseo. MMV nasce dall’aggregarsi di persone che si sono interessate al progetto e che quindi si sono appassionate e si avvicinano inizialmente senza avere in mente una dimensione lavorativa ma piuttosto di attivismo. Questa cosa poi nel tempo si trasforma e adesso quasi tutti i soci attuali sono persone che hanno rapporti lavorativi con il museo. Tuttavia c’è una componente molto fluida di persone che si avvicinano al museo tramite volontariato oppure a volte incarichi retribuiti. Questo è già uno scarto rispetto a quando c’è già un gruppo di professionisti che gestisce il museo seguendo un modello imprenditoriale.
Il grado 10 della partecipazione è quando la co-gestione arriva ad avere un’assemblea di cittadini che decide, ma questa non è la nostra storia, come la è invece quella dell’Asilo di Napoli. La nostra azione di apertura invece si lega più al mettere in condivisione le cose: lo spazio ad esempio è messo a disposizione e può essere utilizzato da associazioni e da gruppi per fare gratuitamente attività con le scuole (con cui ci sono degli accordi), oppure per fare condivisione di un certo know-how. C’è una continua relazione con gli altri abitanti del territorio e uno scambio di competenze e di contatti. In questo senso noi non arriviamo a forme di autogestione dal basso – perché c’è una dimensione gestionale lavorativa – ma siamo il più possibile aperti alla condivisione.

Quanto è presente (o poco presente) culturalmente nelle Industrie Creative questo concetto di gestione partecipata? 

Cambia molto da territorio a territorio. Cambia in base alla grandezza della comunità: una cosa è il contesto urbano, un’altra cosa sono i piccoli centri. Io penso che dove le risorse sono molto limitate, dove non c’è niente, ci sono più occasioni da un certo punto di vista di creare qualcosa e che questo qualcosa sia condiviso. Non essendoci alternative forse si può provare a puntare al far esperire alle persone cose che non appartengono a quella cultura. Quella dei comuni e della condivisione è una cultura che in Italia è poco presente. Va sempre accompagnata, incoraggiata, va fatta vivere. Perché se poi tu vivi quelle cose quindi provi il piacere, insieme ad altri, di sentirti parte di un gruppo dove si viene accolti, trovi la gioia anche di far felice un’altra persona… queste cose qui funzionano più di qualunque teoria. Quindi tutto sta nel creare la possibilità per far fare queste esperienze, e sperare che su 50 persone ce ne siano 10 che dicano: “wow lo voglio fare di nuovo! questa cosa è bella, mi ha fatto stare bene!” Per rispondere alla domanda più in generale l’Italia sta ancora facendo un percorso su questo. E’ qualcosa che una volta forse apparteneva alla nostra storia (gli usi civici, le comunità montane stesse) ma si è molto perso a causa di un individualismo sfrenato dovuto ai modelli dei precedenti anni di politiche economiche liberiste. Gli anni del berlusconismo hanno loro dato il colpo di grazia, anche se nel frattempo ci sono stati degli orrori nuovi. Ma comunque gli anni di bombardamento mediatico e non di certi valori, del concetto di competizione, di arrivismo…  non sono passati indolori.

Anche tramite il Patto di collaborazione educativa che avete stipualto, che impatto hanno avuto le vostre pratiche educative (e non) sul territorio a livello sociale? 

Se parliamo di impatto ti dico che dipende molto dal contesto territoriale. Ad esempio la nostra circoscrizione ha 150mila abitanti, e noi lavoriamo più o meno con 2 mila studenti: per cui in termini di numeri è molto basso. Ma in termini di relazioni create no. Le cose più interessanti che abbiamo fatto sono state quelle apparentemente più semplici, che però evidentemente hanno intercettato delle esigenze reali, e aperto a delle possibilità. Mi viene in mente Il Tempo d’Estate, un programma per bambini e i ragazzi che inizia quando finisce la scuola. Fino al 10 agosto abbiamo ogni giorno 30 bambini tra i 7 e gli 11 anni, che vengono al museo dalle 8.30 alle 17. Sono bambini che forse non sapevano neanche che cosa fosse l’estate. Giocano, mangiano con noi (e qui c’è tutta la tematica dell’educazione alimentare al cibo sano), facciamo gite al mare, nel bosco. E questa è un’esperienza bellissima per tutti, anche se io sono quella costretta a stare al computer, i bambini e i ragazzi mi attraversano, mi bagnano quando giocano con le pistole ad acqua… Fare tutto questo in un museo è stupendo. E la gente si sorprende di questo. L’altro programma per l’infanzia è il doposcuola che abbiamo provato un po’ a reinventare attraverso il supporto compiti e in parte attività creativa. Alla fine l’innovazione sociale e tutti i progetti sofisticati con gli artisti ci sono stati. Ma se mi chiedi quale sia stata l’attività con più impatto io ti dico il Tempo d’Estate e il doposcuola con i nostri educatori, senza tirare fuori chissà quali teorie. Questo è quello che noi chiamiamo “rigenerazione umana”: la consapevolezza che in certi contesti territoriali in cui il legame sociale è stato disperso, dove non ci sono spazi di aggregazione pubblici, dove non c’è l’attitudine a stare insieme agli altri al di fuori del contesto famigliare, che invece incontrare l’altro e lo sconosciuto è sempre importante. Noi operatori culturali questa cosa la diamo spesso per scontata. Ci chiediamo: ma perché la gente non viene? Perché non si diverte? Perché comunque è sempre un rischio andare incontro allo sconosciuto, e questo andrebbe tenuto più in considerazione. E quando ci sono questi contesti, allora più che la rigenerazione urbana dove si aprono nuovi spazi innovativi etc., bisognerebbe invece puntare sulle relazioni umane, aiutare le persone a rigenerarsi.

Parlando di integrazione e inclusione delle persone migranti sul territorio, al momento in museo sta lavorando in questo senso?

Abbiamo iniziato a lavorare con i migranti nel 2019. Quando abbiamo fatto la raccolta partecipativa delle storie, dei dati, mettendo al centro il rapporto con il mare, la questione dei migranti è venuta fuori dalla voce delle persone come “emigrazione”, cioè raccontando l’esperienza delle comunità siciliane emigrate dagli anni ’70. Quindi il mare evocava il ricordo dell’emigrazione siciliana nel mondo. Palermo non era ancora interessata al fenomeno delle nuove immigrazioni. Negli ultimi anni essa è cresciuta molto anche a Palermo e quindi è diventato un tema rilevante. Prima di chiudere per via dell’emergenza covid, stavamo lavorando a un riallestimento del museo con un gruppo di 3 ragazzi migranti (2 africani e una ragazza vietnamita) con cui abbiamo co-progettato questa nuova ala del museo dedicata proprio all’immigrazione, con nuovo exhibit audiovisivo. Loro stessi hanno realizzato interviste e scelto le persone da intervistare. La qualità dell’immagine non è eccelsa, se avessimo collaborato con un videomaker sarebbe stata senz’altro più alta, ma per noi è più importante il processo e l’autenticità delle interviste.

Quindi ora a che punto siete? 

Ora stiamo lavorando solamente al montaggio e quando riapriremo penseremo alla parte allestitiva.

Oltre che la memoria collettiva, che spazio hanno invece l’arte e la creatività in Mare Memoria Viva? E come è integrata a livello pratico nelle attività dell’ecomuseo? 

Noi dell’ecomuseo veniamo tutti da pratiche culturali e quindi portiamo anche il nostro background nel lavoro in MMV. Qui l’arte entra in due modi. Uno è il coinvolgimento di artisti in progetti di creazione, che è la parte anche più difficile dal punto di vista di sostenibilità economica: non ricevendo dei fondi ma dovendo stare in piedi attraverso il fundraising è molto difficile per come è messa la realtà italiana dell’arte contemporanea, che è a volte escludente se non sei già inserito nel giro… E quindi ci siamo organizzati ad oggi con una produzione all’anno. Quest’anno anzi c’è da dire che siamo stati molto fortunati: avevamo partecipato ad un bando del Mibact con degli artisti ed eravamo i secondi non ammessi. Poi però il Mibact ha stanziato degli altri fondi e ci hanno recuperato. Io credo molto nella capacità degli artisti di fare cose importanti e di aiutarci a capire la realtà, ma è molto difficile dal punto di vista economico. Infatti il secondo aspetto in cui l’arte entra è lo spazio dei processi educativi, della didattica: tutte le attività dei laboratori, le narrazioni e pratiche artistiche e creative sono il nostro pane quotidiano.

Quali ostacoli avete trovato nel territorio palermitano nella realizzazione finale del progetto a livello amministrativo, politico o anche economico? Li avete superati? 

Purtroppo no. L’annosa questione della collaborazione pubblico-privata. Noi siamo da 5 anni in questo spazio, non abbiamo una concessione, cioè, banalmente, non abbiamo le chiavi. Quando all’inizio ce lo hanno proposto non ho accettato e ora me ne pento, perché ha comportato cinque anni di mediazioni e limitazioni, in cui per qualsiasi cosa bisognava aspettare che si muovesse la macchina comunale, anche solo per una lampadina. Oppure non possiamo vendere, le nostre magliette, i gadget etc. Ci vuole inoltre molto tempo per tutti gli incontri per le pratiche burocratiche. E questo è un peccato. Quando si ha a che fare con amministrazioni pubbliche, anche se nel nostro caso è “amica”, purtroppo c’è un inefficienza nelle pratiche, ed è molto avvilente. Noi abbiamo stilato un protocollo di intesa che ci dichiara gestori delle attività culturali e didattiche dell’ecomuseo ma che comunque affida al comune le linee guida e la supervisione. Finché quindi ci sarà un funzionario collaborativo e di cui ci fidiamo va bene così, ma un domani un altro funzionario potrebbe mettere bocca e dire “no questa cosa non la potete fare”. Una giunta qualsiasi potrebbe stracciare questo protocollo d’intesa. Questo perché in Italia non c’è ancora una cultura dei beni comuni e gli strumenti giuridici per fare un’alleanza sana tra pubblico e privato.

Quindi il Comune che competenze ha esattamente? 

Ora ha tutta la parte delle utenze, delle pulizie e mette del personale che apre e chiude, ma in realtà le attività principale le facciamo tutte noi. Quindi è una situazione paradossale di convivenza, perché a volte queste sono persone che vorrebbero lavorare ma che non hanno gli strumenti, per esempio, per fare i laboratori. Stiamo cercando qualcosa che ci dia più autonomia.

Palermo ad oggi non ha implementato regolamenti sui Beni Comuni, giusto? 

No ad oggi no. Per questo ci siamo inventati questa cosa del protocollo.

Quanti siete in tutto voi dell’ecomuseo? 

Noi siamo: 3 persone in coordinamento, un’insegnante, 3 educatrici e la responsabile comunicazioni. Quindi otto persone che partecipano al lavoro, con modalità molto diverse: chi è part-time, chi è dipendente, chi è partita-iva, chi una tantum.

A livello territoriale come è stato accolto il progetto? In che zona della città si trova è precisamente?

Il museo è sul mare in una parte di costa non balneabile. E questo è anche un motivo per cui abbiamo fatto il museo, un po’ per mettere in luce questa negazione del mare: lo sviluppo urbanistico, il sacco edilizio, le collusioni politico-mafiose portano a cancellare la possibilità di fruizione del mare a Palermo. La zona è praticamente la parte costiera di Brancaccio, quartiere famoso per l’omicidio di don Pino Puglisi. Anche se siamo attaccati al centro storico geograficamente, nella realtà questa è una zona molto disagiata, di periferia,  piena di palazzoni, senza piazze e senza verde. Unica risorsa sarebbe il mare ma è degradato e sporco. Quest’anno hanno sistemato il porticciolo con un investimento di 6 milioni da parte dell’Autorità Portuale. E questo è stato un grande cambiamento perché è un’area molto vicino a noi, dove spesso abbiamo anche fatto anche interventi di rivendicazione come mostre e attivismo perché fosse riqualificata. Ma questo è solo un pezzo, in realtà tutta la costa versa nel degrado e nell’incuria.

Consigli? 

Bisogna avere molta pazienza. L’unico consiglio che do sempre per lavorare bene con le amministrazioni locali è trovare sempre il precedente. Utilizzare un caso di un’amministrazione che ha fatto un patto di collaborazione o altro e non è morto. Trovare casi simili quanto più vicini alla situazione in questione e dimostrare che le cose possono anche cambiare.