18 Agosto 2022 - Giulia Carletti - Divulgazione

Il Museo di Arte Urbana delle Migrazioni in un cortile

Il cortile di Casa Scalabrini 634, casa di accoglienza per migranti e richiedenti asilo, diventerà un museo a cielo aperto. Non è una metafora, sarà proprio così. Accoglierà il MAUMI, Museo di Arte Urbana delle Migrazioni, sfruttando i muri di cinta del cortile. Il progetto vincitore dell’avviso pubblico “Creative Living Lab – III Edizione” e azione del programma E.P.ART.

Tra Tor Pignattara, Centocelle e Villa de Sanctis, cinque artisti selezionati attraverso una open call, Nicola Verlato, Diavù, Mr Klevra, CROMA e Mosa One, intervengono nello spazio comune esterno della Casa, ripensando l’immagine murale dello spazio condiviso da comunità migranti e membri dell’ASCS – Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo. Varcando la piccola porticina di via Casilina 634, hanno fatto capolino le prime cinque opere, dedicate alla dimensione del sacro a Roma, qualcuna nascosta dalle impalcature. Da settembre, poi, saranno realizzati i restanti affreschi sul periodo moderno e contemporaneo di Roma e Roma Est. Infine verrà ultimata la rigenerazione del giardino interno insieme al progetto finale di musealizzazione, con dispositivi di display delle opere attraverso una pedana, labels e QR code esplorativi.

Il Museo è curato da M.U.Ro – Museo Urban di Roma, progetto di arte urbana che fa del dialogo con i comitati di quartiere e con le cittadine e cittadini punto di partenza (e non di arrivo) delle proposte culturali. Una continua attività di engagement delle comunità locali è ormai ciò che fa dall’inizio della sua fondazione la realtà dell’ Ecomuseo Casilino Ad Duas Lauros (di cui avevo parlato qui nell’intervista al suo presidente Claudio Gnessi) per la quale la curatela di M.U.Ro, in questo caso, opera. Tema centrale di tali immagini è infatti la co-costruzione di una narrazione delle migrazioni a Roma, in una prospettiva complessa, lontana da banalizzazioni e facili stereotipi, ruotando anche attorno alle ricerche dello CSER, che ci parlano di un quartiere romano abitato da migranti durante tutta la sua storia: dall’antica Roma, al Medioevo fino all’età moderna, dall’Ottocento al secondo dopoguerra. “La parola tolleranza è una parola che non ci appartiene” – ha detto Claudio Gnessi nel dibattito di apertura del Museo il 18 luglio in dialogo con Diavù: così come tante altre parole, essa parte dal presupposto che in qualche modo si debba “sopportare” (senza entrare in rapporto) la presenza di qualcun altro per il solo fatto che esista. È proprio questo il nodo narrativo che il MAUMI vuole scardinare, non solo attraverso la realizzazione delle rappresentazioni finali che esporrà, ma attraverso l’intero processo di coinvolgimento delle sue comunità di riferimento.

Per “valorizzare” un pezzo di territorio su cui non si investe né materialmente né immaterialmente, non si rendono necessarie avventurose imprese di project financing lontane dalla comprensione d’insieme del territorio. Per fare cultura, quella vera, che narra e fa narrare un territorio di sé stesso, non si deve fare altro che attivare partecipazione dal basso: un’attività lunga, faticosa, ma la più umana ed emozionante possibile. Tali esperienze fanno naturalmente risultare fuori luogo qualsiasi tipo di intervento “rigenerativo” calato dall’alto. “Musealizzare” un pezzo di quartiere associato a marginalità e povertà non significa “mettere a valore” un pezzo di spazio, spremerlo e vedere che tipo di profitto ne possa uscir fuori, ma significa innescare processi trasformativi dai quali difficilmente si torna indietro, perché edificati da persone, relazioni e confronti continui, con l’unico obiettivo di aprirsi alla cittadinanza, dare spazio ad una bellezza per tutte e tutti, senza l’illusione di renderla un lusso per pochi.

[Nella foto di copertina: Diavù]