14 Ottobre 2020 - Giulia Natella

L’educazione popolare come lotta per i diritti umani

Trasferitosi dal nord Italia nella Sicilia degli anni 50 in piena crisi economica e sociale, Danilo Dolci ci ha insegnato come l’educazione popolare, quella che mette in moto le coscienze, lo spirito critico, la comunicazione, l’ascolto reciproco e attivo, sia la forma più incisiva di lotta per i diritti di tutte e di tutti e per la difesa dei nostri territori.

Un educatore, attivista, poeta, sociologo rivoluzionario che ancora oggi si conosce ben poco. Danilo Dolci nasce in provincia di Trieste nel 1924. Dopo gli studi in architettura alla Sapienza di Roma e un’esperienza nella comunità di Nomadelfia, a 28 anni si trasferisce a Trappeto, piccola città al confine tra Trapani e Palermo, una delle più povere e dimenticate. In quegli anni comincia il viaggio di un giovane educatore “militante” e laico in una Sicilia segnata dalla povertà, dalle disparità sociali e dalla noncuranza politica.

Un percorso che può essere riassunto tra digiuni, scioperi, grandi proteste e manifestazioni: una vita vissuta contro le ingiustizie sociali e gli sprechi. Dopo avere ricevuto il premio Lenin per la pace, istituisce il Centro studi e iniziative per la piena occupazione, intensificando nel frattempo l’attività di denuncia contro la mafia.

Una delle sue azioni rimasta impressa nella storia è la costruzione nell’estate del 1971 della diga sullo Jato a Partinico, con una capacità di invaso di 72 milioni di metri cubi di acqua, che ha permesso l’irrigazione di una parte dei circa 9.000 ettari irrigabili. Dolci può essere anche considerato il pioniere della giustizia ambientale in Italia: dal coinvolgimento attivo delle comunità locali nelle politiche ambientali alla lotta contro gli sprechi di risorse idriche al consumo di suolo in Sicilia. “Siamo tutti figli dell’acqua, però io ho un rapporto particolare con l’acqua, fonte di vita; a Partinico, a Montelepre, ho imparato dai contadini una grande lezione di civiltà e di libertà, proprio partendo dai conflitti sull’acqua” (Danilo Dolci, Il potere e l’acqua. Scritti inediti, Melampo Editore, Milano, 2010, p.14.)

Come per il collega oltreoceano Paulo Freire (noti per aver contemporaneamente svolto, da un capo all’altro del mondo, un lavoro di coscientizzazione degli adulti, di pedagogia della liberazione e in modi diversi per essere stati i due educatori politici per eccellenza), anche per Dolci alla base della pedagogia c’è il lavoro con la comunità, con gli oppressi e non per la comunità, per gli oppressi: un perfetto esempio di partecipazione e cittadinanza attiva, contro l’isolamento e a favore del coinvolgimento, della creatività e della consapevolezza. “Educare, senza nascondere l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni sviluppo ma cercando d’essere franco all’altro come a sé, sognando gli altri come ora non sono: ciascuno cresce solo se sognato”.

Questo metodo educativo viene definito maieutica reciproca, un approccio nel quale l’educatore è un mediatore e non colui che detiene la verità: uno scambio reciproco basato sulla domanda, l’ascolto e la partecipazione finalizzato all’autodeterminazione individuale e collettiva. Dolci afferma che le risorse per il cambiamento vanno ricercate e tirate fuori (come suggerisce l’etimologia della parola educare: ex-ducere, “tirare fuori”) dalle persone stesse  per costruire una società di donne e uomini consapevoli: un processo di autoanalisi popolare, che crea nuovi modelli democratici.

Lo studio di Danilo Dolci dovrebbe essere un insegnamento necessario per chi opera nel campo dell’educazione e dell’attivismo: le sue proteste per la pace sono i nostri cortei contro la chiusura dei porti, le sue marce e la sua lotta per l’ambiente rivivono nei nostri movimenti in difesa dei territori. Gli oppressi, i disoccupati e gli analfabeti della Palermo degli anni 50 sono nei nostri quartieri dimenticati, dove gli spazi occupati e i presidi di educazione aperta rappresentano un’opportunità per la liberazione: luoghi in cui, come Dolci ci insegna, si discutono i problemi comuni, si rivendicano i diritti, si accendono le coscienze, cercando di essere tutte e tutti i  protagonisti della trasformazione; dove le scuole popolari, nate grazie all’eredità che questa pedagogia ci ha lasciato, coltivano creatività e autonomia, la domanda più che la risposta “giusta”; dove si riconsiderano i ruoli tramite il dialogo e la narrazione di una realtà orgogliosamente eterogenea.

La marcia per un mondo nuovo di questo “maestro di nessuno” ha bisogno di rinascere nei nostri territori, nelle strade in cui siamo obbligati a lottare contro censure, divisioni e ingiustizie. Ora, più che mai la pedagogia della comunicazione libera, con tutti e per tutti è indispensabile per la crescita democratica del mondo. Rivendicare così, in modo assoluto e determinato, il diritto ad esprimersi : un potere che mai nessuno, perseguendo queste idee, potrà sottrarci.