14 Ottobre 2020 - Giulia Natella

Un naso rosso contro l’indifferenza

Partendo dal Metropoliz, quella città meticcia, luogo e simbolo di autodeterminazione a Roma, arrivando alla comunità rom di Satu Mare, in Romania, alla strada, al gioco , alle periferie Romane, alle bambine, alle adolescenti e le giovani donne rom che ti sfiorano, ti accarezzano, si arrabbiano, spariscono, alla frustrazione, ai problemi che non si risolvono, ai diritti e ai doveri, all’impegno contro il pregiudizio, sto imparando l’immenso lavoro di un’educatrice. Un mestiere fatto di lotte, di percorsi, di volti e di storie, quelle che vedi e quelle che ti raccontano: “guarda PARADA prima di partire, questo film ti rivelerà la storia di una Romania con cui dovrai convivere”. Rimasi incredula, io non la conoscevo Bucarest, le mille contraddizioni, la vita nei tombini e quello straordinario e pazzo giocoliere che venti anni fa permise alla sua arte di trasformarsi in un’opportunità per tanti degli invisibili, dei boschetari.

Io andai al nord, dove la situazione non è assolutamente migliore, ma qui chi è già ultimo ed escluso non subisce il trauma aggiunto di far parte dei vagabondi di un grande centro: le grandi città hanno il potere di scavare profondamente e in maniera quasi irreversibile quella spaccatura tra classi sociali.
A distanza di tre anni, più consapevole, decido di venire ad osservare con i miei occhi.
Sono preparata ai sacchetti di Aurolac, la droga, a dormire male la notte, conosco abbastanza bene le dinamiche della vita in strada, ma non ero pronta ai paradossi di Bucarest.

Per usare un grande eufemismo, il “conducator” ha combinato un bel guaio. Nicolae Ceausescu vietò l’aborto in Romania nel 1966, aumentò le tasse per chi, compiuti i 25 anni, non avesse figli, negò ogni forma contraccettiva: la quantità che fa la forza, il sogno della Grande Romania. Ne consegue una disastrosa crisi economica, di povertà, abbandono e di orfanotrofi lager. Da qui il boom della vita in strada, unica alternativa di sopravvivenza. Dal regime comunista di Ceausescu all’entrata in Europa ci è voluto un attimo. Un attimo basta, da Piata Muncii attraversando Piata Unirii e arrivando a Lipscani, per entrare nelle radici e nelle incoerenze di Bucarest: tra gli invisibili spiccano le notti folli degli erasmus, a contrastare i casermoni vecchi e decadenti del periodo comunista ci sono i centri commerciali con le insegne delle più grandi multinazionali, simbolo di una rinascita apparente: troppo capitalismo tutto insieme fa venire la nausea se si arriva con un minimo di consapevolezza e coscienza storica in questa città.

I boschetari, “i ragazzi” di strada, gli invisibili, sono per la metà di etnia rom (in Romania sono circa il 3% della popolazione totale), molti hanno fatto di questo distintivo e dell’emarginazione parte integranti della loro stessa identità, altri molto meno. Dalla dimenticata storia di schiavitù del popolo rom in Romania ( «il più grande, sistematico, controllato sistema schiavistico dell’Europa moderna » come afferma Leonardo Piasere, antropologo dell’università di Verona, nel suo libro “I rom d’Europa, una storia moderna”) alla politica del regime, in cui non venivano riconosciuti come minoranza etnica, alla sedentarizzazione forzata di Ceausescu, arriviamo all’emarginazione sociale odierna dei rom e delle romnì: la forte ondata razzista degli anni 90 e la pericolosa indifferenza e pregiudizio dei nostri giorni. Tanti vivono sotto i tombini (canali, li chiamano), nelle case occupate, nei garage. Oggi la differenza di etnia nella vita del sottosuolo non esiste più: i rom, gli orfani e i senza tetto romeni condividono insieme lo spazio in cui potersi riparare, ma anche le siringhe. Il livello di tossicodipendenza del popolo di strada di Bucarest è altissimo. ARAS (Associazione romena contro l’AIDS) collabora con Parada e gestisce il servizio di distribuzione delle siringhe sterili: “Il 90% dei ragazzi controllati nelle strutture sanitarie risulta sieropositivo o affetto da epatite C” (Tra gli invisibili di Bucarest, inchiesta di Lino Alaimo, 2016, pubblicata su Repubblica).

Da venti anni se passi in strada Bucur, li vedi entrare in un edificio rosso mattone: il centro diurno di Parada.

Parada non è esente dalla crisi che colpisce inesorabilmente il terzo settore: nel quadro europeo la Romania balza ai primi posti per rischio povertà ed esclusione sociale, i finanziamenti per le politiche di inclusione sono praticamente inesistenti. Mi trovo di fronte a chi lotta per continuare a dar vita ai progetti che hanno sempre contraddistinto questa fondazione e ad una storia di inclusione importante: il circo come strumento educativo informale per contrastare il disagio sociale. T. e G. sono diventati formatori, conducono workshop per bambini e ragazzi, arrivando con il loro circo sociale persino nel campo profughi ad Arbat, nel Kurdistan iracheno; M. , clown dalla dolcezza disarmante, ha girato l’Italia, me lo immagino con le sue bretelle su un furgoncino sgangherato; G., provocatore nato e clown dagli occhi color cielo, ha svolto uno SVE (Servizio Volontariato Europeo) a Palermo in un centro diurno per giovani ad alto rischio di esclusione sociale. Ora sono tutte e tutti a Bucarest, si gira il mondo ma si torna sempre, anche se T. continua a sognare la Brianza.

Di sera si apre una porticina del centro, lì l’unità mobile: le coperte, i vestiti, la prevenzione, i documenti, l’odore della zuppa e di un inquietante trito di carne a forma di salame che ho imparato ad apprezzare, il lavoro sociale su strada che si traduce in fatica e in tenacia, la diffidenza che diventa simpatia perché sei quell’ “italianca” che parla un po’ di rumeno e che vuole imparare il loro rromanì.

Ho ancora due mesi davanti, la primavera della Romania e i parchi di Bucarest : un pezzo di gomitolo della mia ragnatela ora è anche qui,

Pa Pa!