Diritto alla casa e narrazioni tossiche nell’hinterland romano
Lo scorso 18 ottobre insieme ai movimenti per l’abitare abbiamo ottenuto la proroga dello sfratto di una famiglia della nostra rete, attraverso la mobilitazione di attivisti/e, militanti e vicini/e. La riflessione che ci ritroviamo a fare all’indomani di questa ennesima situazione di ingiustizia sul territorio di Ciampino, non riguarda gli ostacoli e le colpe delle istituzioni sul singolo caso – che pure ci sono state – ma quello che le autorità locali non hanno fatto finora sul tema del diritto all’abitare, che sta diventando un problema sociale enorme a seguito soprattutto della pandemia e della attuale crisi energetica.
Intanto, la questione della casa popolare: in un comune come Ciampino, per accedere all’edilizia residenziale pubblica può volerci moltissimo tempo, dal momento che il patrimonio nelle disponibilità della comunità ammonta a meno di 150 case di proprietà del Comune e poco più di 300 case Ater. Ci sono poi gli alloggi del Comune di Roma, alcuni dei quali risultano vuoti ad oggi, ma che ovviamente non rientrano nella disponibilità di Ciampino. Le graduatorie vengono aggiornate estremamente a rilento, per cui centinaia di famiglie sono in attesa di alloggi popolari e spesso non conoscono la loro situazione rispetto alla graduatoria. Nel frattempo, non sembra che il Comune si sia mai attivato per valutare la possibilità di riservare un’aliquota di alloggi ERP a situazioni straordinarie di emergenza abitativa, ai sensi della legge regionale del 27 febbraio 2020, siano essi alloggi comunali o Ater.
C’è poi un grande tema urbanistico, che non è nuovo e che ha colpe ben precise nella classe politica e nell’élite economica del territorio, che spesso e volentieri coincidono. Sappiamo di trovarci in un’area urbana tra le più densamente popolate dell’Italia centrale e con il primato decennale della maggiore percentuale di suolo consumato nel Lazio. Qui l’economia del mattone ha profondamente segnato il tessuto sociale e politico della città: si tratta dell’espansione della Capitale a discapito della Provincia, la creazione di un hinterland incontrollato dove i vecchi centri urbani vengono inghiottiti dentro mura invisibili fatte di grandi centri commerciali, industrie, discariche, arterie stradali e snodi ferroviari, nuove aree residenziali e, nel caso di Ciampino, uno scalo aeroportuale internazionale altamente impattante dal punto di vista ambientale. Questo comporta un impoverimento dei centri urbani dell’hinterland, caratterizzati, a differenza della metropoli, da comportamenti demografici opposti alla gentrificazione, come i fenomeni di white-flight (l’auto-allontanamento dei gruppi privilegiati da un luogo considerato degradato).
Questo fenomeno può essere osservato dai dati a nostra disposizione: esiste una platea di classe lavoratrice multiculturale con background migrante, che abita prevalentemente a Ciampino centro. Dalle nostre elaborazioni statistiche si presume siano circa il 13-15% in tutto il centro, con punte del 20-22% in alcune vie a cavallo col quartiere Folgarella, mentre scendono al 5% nel quartiere Mura dei Francesi, con punte al ribasso del 2-3% nelle aree ex 167, dove cioè ha trovato casa negli anni ‘80-’90 una fetta di classe media ciampinese allontanatasi dal centro urbano. E’ una dimostrazione plastica del fenomeno di white-flight in atto, che somiglia a ciò che accade nelle cittadine statunitensi dove i quartieri poveri sono i più centrali e anche quelli con meno residenti bianchi, perché questi ultimi vanno via in un circolo vizioso di dinamiche identitarie e di classe. Questo rischia di creare ulteriore segregazione anche a Ciampino, se non si mettono in atto politiche abitative adeguate e lungimiranti.
In questo contesto, infatti, i quartieri centrali si impoveriscono a causa di scelte per lo più urbanistiche ed economiche. Dunque sempre più famiglie lavoratrici e di classe popolare – sia italiane che straniere – si ritrovano asfissiate dagli affitti che restano elevati a causa dei collegamenti strategici del centro di Ciampino con Roma, in palazzine degli anni sessanta e settanta, con proprietari che vivono ormai lontano e che affittano magari la vecchia casa di famiglia. Questa situazione, comune a gran parte delle borgate romane limitrofe come Morena, Centroni, Gregna S. Andrea, pone un problema sociale enorme dal punto di vista abitativo, con sfratti sempre più frequenti soprattutto a fronte della crisi globale in atto. La politica non può far finta di non vedere.
Di casi come quello del 18 ottobre scorso, purtroppo, ce ne sono tantissimi in tutta l’area tra la periferia capitolina e i Castelli romani, un territorio fatto di frazioni e borgate sorte in modo incontrollato negli anni del dopoguerra ed oggi vittime dell’assenza di pianificazione sociale che ha accompagnato il laissez-faire urbanistico. Sono le aree periurbane residenziali, territori figli del neoliberismo e delle sue superstizioni ideologiche, secondo cui il successo del singolo è esclusivamente frutto della sua iniziativa e del suo “spirito proprietario”, mentre il suo insuccesso, come la povertà, come uno sfratto per morosità, è colpa della sua pigrizia o di una qualche ostilità alle regole del gioco. E’ il far-west di un territorio carente di servizi, dove il welfare si privatizza e le case popolari sono drammaticamente in sottonumero. Eppure questa narrazione ha invaso ogni sfera del discorso pubblico, perfino nelle istituzioni, fin dentro gli uffici e nei luoghi che dovrebbero rappresentare il primo avamposto di difesa dei diritti degli ultimi.
A Roma, come riferisce la Assemblea di autodifesa dagli sfratti, la vicenda di molte famiglie sotto sfratto segue sempre lo stesso pattern che vediamo anche in Provincia: proprietari a cui non serve l’immobile per viverci, che possiedono altre proprietà, e uffici pubblici che propongono soluzioni disumanizzanti impiantate su un’idea politica di welfare punitivo. Assistiamo ogni giorno a questa narrazione tossica a livello nazionale su temi come il Reddito di cittadinanza. Atteggiamenti accusatori, colpevolizzazione dei poveri in quanto tali, difese d’ufficio (spesso non richieste) nei confronti del diritto di proprietà, sono sempre più diffusi in ogni genere di contesto. E dunque le soluzioni restano i centri d’emergenza, le case famiglia, la divisione dei nuclei familiari, anche con il rischio di compromettere la continuità del percorso educativo dei minori (art.20 della Convenzione sui diritti dell’infanzia e adolescenza). L’orizzonte della casa come diritto universale pian piano sparisce dal discorso pubblico, offuscato dalla convinzione che il proprio privilegio di nascita sia il metro col quale prendere le misure all’intera società. Di fronte a questi strumenti di oppressione, ci troverete sempre dall’altro lato della barricata.