20 Giugno 2021 - Daniele Corsico - Divulgazione

Valsusa NoTav: La natura che si ribella colpisce ancora!

Lo scorso 12 giugno si è svolta un’imponente mobilitazione del movimento NoTav in ValSusa: circa 15mila persone hanno manifestato contro l’apertura di un nuovo cantiere funzionale alla costruzione del tunnel per l’alta velocità camminando per 6 chilometri e mezzo lungo la statale 25, da Bussoleno fino a San Didero; qui è previsto infatti l’insediamento del nuovo autoporto, una struttura di supporto al controllo doganale per il traffico di merci, che si sostituirà a quello di Susa, dove è invece previsto, in un primo momento, un centro di stoccaggio per il materiale di risulta dei lavori per il tunnel, e, in seguito, la stazione internazionale dell’alta velocità.

Per questo piccolo comune non si tratta di una novità: verso la fine degli anni 70 si era già deciso di realizzare questa struttura, ma l’allungamento dei tempi e la costruzione di una struttura analoga nei pressi della vicina Susa fecero sì che i lavori si fermassero, lasciando all’abbandono un edificio che è poi divenuto il presidio NoTav ex autoporto di San Didero, occupato nel dicembre 2020 e sgomberato il 12 aprile scorso in vista dell’inizio dei lavori. Questo nuovo cantiere costerà 55 milioni di euro di soldi pubblici, di cui più di 5 spesi in opere di “sicurezza per il cantiere”, poiché ci troviamo “in una zona fortemente soggetta a rappresaglie da parte di gruppi politici ostili”, come si legge nella relazione di TELT, l’azienda pubblica creata ad hoc per realizzare il TAV Torino Lione. Questo la dice lunga su quale sia il livello di confronto che lo Stato intrattiene con chi abita i territori attraversati dal TAV e dai suoi cantieri accessori. Un deficit di democrazia estremamente grave perché il loro territorio, i Valsusini, oltre ad abitarlo, lo conoscono bene e le questioni che pongono sono estremamente gravi, troppo per essere liquidate come “rappresaglie” e “ostilità politica”.

Nello specifico la zona di San Didero/Bruzolo è particolarmente delicata, poiché i suoi terreni sono altamente compromessi dall’interramento di rifiuti tossici e da decenni di attività siderurgica dell’acciaieria Beltrame, che non ha nulla da invidiare all’ILVA di Taranto per quanto riguarda emissioni nocive e fuori legge. Movimentare quei terreni significherebbe liberare pericolosissime sostanze tossiche in giro per la valle con effetti devastanti per la salute dei valligiani. I fatti di San Didero sono solo un piccolo esempio di quanto ormai succede in valsusa da più di 25 anni, durante i quali sono stati distrutti ettari di bosco e perforate montagne piene di amianto e uranio. Quelli che TELT chiama “gruppi politici ostili” sono i comitati NoTav nati a metà degli anni 90 alle prime notizie dei lavori, in tutti i comuni della valle per protestare contro questa ulteriore devastazione del loro territorio. Ulteriore, perché questa zona non dobbiamo immaginarcela come la valle alpina da cartolina, costellata qua e là da caratteristici borghi montani, ma come una zona ad altissimo tasso di urbanizzazione e, nel secolo scorso, di industrializzazione: magazzini, fabbriche, supermercati e altre strutture ad alto impatto ambientale si alternano a piccoli centri urbani, attraversati da diverse vie di comunicazione: due superstrade, un’autostrada, un elettrodotto, una linea ferroviaria regionale e una linea ad alta velocità che da Torino arriva a Lione.

Si, esatto. Il treno ad alta velocità Torino Lione esiste già, ed è noto tra gli abitanti come TGV, pronunciato regolarmente in francese, sempre a dimostrazione della chiusura psicologica che le Alpi opererebbero sulle menti dei Valsusini e che quindi vanno perforate per dar loro modo di aprirsi, come ebbe a sostenere qualche anno fa l’allora presidente della regione Piemonte Cota. A torto, infatti, si pensa spesso ai Valsusini come a delle comunità di montanari chiusi e arretrati, ostili al progresso tecnologico e ostinati nel difendere un modello di vita agro-pastorale ormai desueto, a danno del benessere del paese che, a quanto pare avrebbe bisogno di quest’opera. Niente di più falso, se pensiamo alle evidenze urbanistiche, economiche e industriali di questa valle, di cui sopra, e alla morfologia di questo territorio, da sempre corridoio naturale delle alpi occidentali. I Valsusini non si sono mai opposti alla novità, sono da sempre abituati alla circolazione di merci e di uomini; ciò che il movimento NoTav contesta è lo sfruttamento esagerato della valle e della sua posizione, che si accompagna, in quest’opera, allo sperpero di miliardi di euro di denaro pubblico per un’opera che non serve né alla valle né tantomeno al paese, ma solo a cooperative e imprese, alcune in odor di ndrangheta, che ricevono fondi per la realizzazione.

Infatti il tunnel del TAV, un buco di 65 km in una montagna piena di materiale amiantifero, serve a guadagnare qualche decina di minuti nel trasporto veloce di merci. Ora, se guardiamo i dati, in riferimento a quella zona ma anche nel resto d’Europa, il traffico di merci è in calo da decenni e non c’è ragione di credere che le cose dovrebbero cambiare tra circa 30 anni, quando l’opera, presumibilmente, verrà completata; i tempi, come tra l’altro denunciano i Notav, rischiano di essere ancora più lunghi, perché tra complessità ambientali, infiltrazioni mafiose e irregolarità, i cantieri della valle vengono regolarmente bloccati; è notizia di qualche giorno fa che anche i lavori per l’autoporto di San Didero sono stati sospesi per, non meglio precisate, “modifiche al progetto”. Rimane in piedi solamente tutto l’apparato poliziesco che sorveglia qua e la nella valle cantieri vuoti, per impedire ai valligiani di entrare nei loro terreni espropriati spesso arbitrariamente, un apparato estremeamente costosa che pesa per decine di migliaia di euro al giorno sui conti pubblici, a causa delle indennità di rischio e straordinari pagati alle forze dell’ordine, oltre alle strutture necessarie alla “sicurezza” del cantiere.

Il movimento di protesta contro tutto questo, nato negli anni 90, inizialmente per protestare contro la costruzione dell’autostrada E70 , è oggi più vivo che mai se guardiamo le immagini di sabato scorso e sembra quasi non risentire del tempo che sempre più spesso vede i movimenti anticapitalisti soccombervi, logorati da rivalità interne e dagli eterogenei tentativi del potere di disarticolarli, attaccandoli frontalmente con la repressione e/o cercando di fagocitare le loro leadership. Il movimento NoTav è sempre stato incrollabile di fronte a tutti gli attacchi, che sono e continuano ad essere molti e di portata rilevante; non si contano infatti i provvedimenti giudiziari a danno di chi partecipa alle iniziative di movimento, migliaia tra reclusioni, domiciliari, obblighi di firma, pene pecuniarie elargite con molta, forse troppa, disinvoltura; emblematico è il caso di Nicoletta Dosio, una delle pioniere del movimento, una professoressa di greco in pensione di 75 anni che ha dovuto scontare 4 mesi di carcere per aver sollevato, insieme ad altrx, la sbarra del casello autostradale in segno di protesta dopo che, in occasione dello sgombero di un presidio nel febbraio 2012, un attivista, inseguito da un rocciatore dei carabinieri, era caduto da un traliccio dell’alta tensione dopo essere stato folgorato, salvandosi per miracolo. O anche quello di Maria Edgarda Marcucci, che, per partecipare al corteo di sabato ha dovuto violare la sorveglianza speciale, di cui è oggetto a causa della sua partecipazione al conflitto siriano con le Ypj – le forze di autodifesa delle donne del movimento di liberazione curdo – che, unita alla partecipazione al movimento NoTav, farebbe di lei una persona socialmente pericolosa. Anche dal punto di vista della violenza poliziesca di “piazza” il movimento NoTav ha subito, attacchi gravissimi, ultimo quello di due mesi fa, in occasione del corteo di protesta per lo sgombero del presidio di San Didero, quando un’attivista è stata colpita in pieno volto da un lacrimogeno lanciato ad altezza uomo. Durante la gestione dei momenti di tensione le forze dell’ordine infatti non disdegnano di utilizzare questa e altre condotte vietate, come l’uso di gas cancerogeni al CS, vietati perfino negli scenari di guerra, lancio di pietre e uso di oggetti contundenti diversi dal manganello.

Tuttavia gli abitanti della Valsusa, sostenuti da decine di comitati, associazioni, collettivi e sindacati di tutta Italia, continuano a dare prova di grande determinazione nella difesa del loro territorio dalle devastazioni ambientali e dalle speculazioni che attraversano questa valle informando i cittadini in modo minuzioso sulle scelte che politici e tecnici operano sulle loro teste e denunciandone la scelleratezza. Così facendo rifiutano l’idea del meccanismo autoritario con cui lo stato governa i territori imponendo le sue decisioni, difendono l’autentica accezione di democrazia, quella della decisionalità orizzontale, per una politica aperta alla gestione partecipata dei territori su cui le scelte politiche, tecniche ed economiche ricadono. Lo stato invece, a tutti livelli, ha sempre dimostrato grande chiusura a qualunque richiesta di dialogo da parte del movimento, anche in tempi non sospetti, quando nessuno accostava alla protesta contro il Tav le azioni di sabotaggio del cantiere e gli scontri con le forze dell’ordine. Alla chiusura e agli attacchi, il movimento NoTav oppone il suo patrimonio di conoscenza, dell’opera e del territorio, la sua determinazione, ma soprattutto la sua unità che, a parere di chi scrive, rappresenta la lezione più preziosa che questo, non a caso, longevo movimento offre alle realtà che si pongono l’arduo compito di resistere alle ricadute sociali e ambientali di questo modello di sviluppo: al corteo di sabato scorso, come in tutte le grandi iniziative NoTav, erano presenti amministratori locali di diversi partiti, associazioni cattoliche, partiti comunisti, centri sociali e gruppi anarchici e la capacità di tenere dentro tuttx permette al movimento a distanza di tanti anni di organizzare mobilitazioni di successo come quella di sabato scorso. Un lavoro senz’altro non semplice, ma che si rende indispensabile per organizzare una risposta adeguata alle devastazioni ambientali e sociali che colpiscono ovunque, non certo solo in Valsusa.

Rivolgendo l’attenzione alla controparte presente in piazza, è secondo me importante riflettere su un fatto che mi ha notevolmente colpito, nella sua apparente irrilevanza: la quasi totale assenza di forze dell’ordine durante il corteo, limitata ad uno svincolo autostradale e, ovviamente, al cantiere di San Didero, che contava decine e decine di uomini e mezzi asserragliati nell’ex autoporto protetto da doppie recinzioni e filo spinato di fabbricazione israeliana, pensato per avvolgersi intorno al braccio di chi decide di tagliarlo. Uno scenario inedito anche per chi negli ultimi anni ha partecipato a decine e decine di manifestazioni. Chi scrive non tiene particolarmente alla presenza dei tutori dell’ordine, ma allo stesso tempo cerca di comprendere i messaggi che il potere manda attraverso le sue braccia armate e quello di sabato è a mio avviso un messaggio sgradevole e inquietante, sebbene non nuovo, ma con risvolti positivi per gli obiettivi del movimento: se andiamo sul sito della polizia di Stato leggiamo che il reparto celere è impegnato “principalmente per garantire l’ordine pubblico e la sicurezza dei cittadini durante le manifestazioni di piazza o sportive.”Sappiamo bene che queste garanzie di ordine e sicurezza nascondono spesso la volontà di reprimere e deprimere i movimenti sociali, ma per come vengono presentati nel dibattito pubblico i poliziotti in tenuta antisommossa tutelerebbero i cittadini dai manifestanti violenti, ma anche i manifestanti stessi da pericoli esterni o interni alla manifestazione, per garantire la possibilità, sacrosanta in una repubblica democratica, di esprimere il proprio dissenso diventando massa, senza rischiare i pericoli che spesso il diventare massa porta con sé.

Ora, scegliere di non schierare coloro che, pagati profumatamente dai cittadini, hanno formalmente questo compito delicato significa scegliere di non tutelare una massa di migliaia di persone in movimento su una strada statale che attraversa decine di centri urbani; scegliere piuttosto di asserragliarsi in un fortino puntando un idrante sui manifestanti rappresenta un messaggio chiaro: non c’è alcuna pars costruens nel rapporto che lo Stato intrattiene con il movimento e la storia di violenza poliziesca ha gettato sulla presenza delle forze dell’ordine in Valsusa e soprattutto nelle grandi iniziative di movimento, l’ombra della provocazione. Ciò a cui si è assistito nel riflesso di questa assenza, è lo slittamento dello status di “cittadini titolari di diritti” a “nemici da cui difendersi”. Dunque lo Stato si trova costretto, per evitare tensioni difficilmente gestibili, ad abdicare la parte del diritto per trincerarsi, non solo simbolicamente, nella parte del dovere, rinunciando così a una delle prerogative che giustifica la sua esistenza, la tutela dell’incolumità degli individui. Ovviamente la realtà dei fatti sgombra il campo da costruzioni culturali del potere come questa e svela la verità delle cose: 15000 persone che marciano per sei chilometri e mezzo per difendere la propria terra non hanno bisogno di uomini armati che li proteggano, ne le comunità che questa folla attraversa hanno motivo di sentirsi minacciati. Gli unici a sentirsi minacciati sono quei pochi che a più livelli difendono il TAV e vorrebbero imporre un modello di sviluppo che non si preoccupa degli interessi collettivi, non si cura della qualità della vita delle persone, ma punta solo ad arricchire senza limiti quei pochi e a tenere in piedi un rapporto autoritario tra classe dirigente e cittadini. Questi pochi dovrebbero fare un po’ come gli alti funzionari di polizia che hanno rinchiuso i loro uomini in una gabbia, farsi da parte e lasciare che gli abitanti della Valsusa gestiscano le loro vite e i destini del loro territorio, già abbastanza compromesso.