27 Maggio 2016 - Redazione - Divulgazione

Verso il referendum: Senato, Europa e Democrazia

La riforma costituzionale sulla quale verremo chiamati ad esprimerci ad ottobre con un referendum confermativo, viene descritta dal fronte del sì come un’occasione d’oro per portare l’Italia in avanti nel cammino democratico e di rappresentanza politica, al passo con la storia, fuori dalle lungaggini della palude legislativa attuale. Non mi dilungherò su questo, ma basti pensare a dove davvero sta andando la storia della democrazia occidentale, verso quali forme, attraversando quali crisi, per comprendere quanto questa riforma sia un aggiustamento dell’esistente, peraltro goffo e in alcuni tratti dannoso.

La democrazia partecipata o le forme sperimentali di democrazia diretta, che alcuni tra i sistemi più avanzati stanno inserendo nelle proprie Costituzioni, non solo vengono ignorati ma cozzano contro alcuni dei provvedimenti contenuti nella riforma, basti pensare all’aumento delle firme necessarie per le proposte di legge d’iniziativa popolare, in netto contrasto con ciò che avviene nei contesti dove si stanno riformando seriamente i modelli di rappresentanza. Dall’Islanda alla Bolivia, dalla Finlandia alla Tunisia, per citare gli esperimenti di macro-riforme costituzionali più giovani, si inseriscono nei propri ordinamenti forme di controllo popolare e di contenimento del potere degli esecutivi. Una lettura attenta di questi processi può essere utile a capire quanto questa riforma italiana sia una stortura demagogica messa in piedi con interessi molto diversi da quelli che fanno riferimento alla democratizzazione del paese. 

Senza voler azzardare un testo di diritto costituzionale comparato, che non è la mia materia, vorrei porre l’attenzione sul significato politico e sociale del più discusso ed esplicativo dei contenuti della riforma: il disegno del nuovo Senato.
I sostenitori del sì, innanzitutto, hanno dato vita a una serie di fallaci comparazioni con le aspirazioni riformatrici della sinistra in questo Paese, cosa più che mai infelice. La riforma infatti, è bene ricordarlo, non istituirà un sistema monocamerale – aspirazione delle sinistre europee in diverse fasi della storia – ma produrrà un sistema bicamerale non più “perfetto”, ma “differenziato”, in combinazione con una legge elettorale (l’Italicum) di tipo fortemente maggioritario con un elevato premio di maggioranza. Questo è sempre stato il più nero degli incubi per la sinistra comunista, repubblicana, socialista, per la quale le limitazioni ai poteri della maggioranza e dell’esecutivo (attraverso un sistema elettorale proporzionale) e la limatura del carattere del Senato come camera delle élite, erano la priorità assoluta. In questo aspetto la Costituzione del ‘48 era un compromesso più che accettabile per il Pci e il Psi di allora. Semmai, come spiega brillantemente questo articolo della politologa e docente alla Columbia University Nadia Urbinati, la riforma Renzi-Boschi coincide molto con le aspirazioni riformatrici di una certa fetta della destra italiana del dopoguerra.   
Abbiamo parlato di Senato delle élite non a caso, proprio perché questa riforma, al contrario di quanto auspicato dalla sinistra nella sua lunga storia, in realtà aumenta il carattere aristocratico e lobbistico del Senato. Per spiegare in che modo, torniamo in Europa.

Una delle ragioni del sì fa riferimento al confronto con altre situazioni europee, sostenendo che la riforma costituzionale in questione non farebbe altro che avvicinare l’Italia alla maggior parte dei sistemi di altri grandi paesi UE. Questo, superficialmente, appare verosimile. Soprattutto Francia, Belgio, Olanda, Germania, Austria e Spagna, hanno infatti una Camera Alta eletta in secondo grado e in rappresentanza delle territorialità, similmente al “Senato delle Regioni” previsto dalla riforma. 
Eppure, a guardare bene, qualcosa non torna: la grande differenza sta nell’equilibrio dei poteri tra rami del Parlamento e tra istituzioni dello Stato. Innanzitutto paesi federali come Germania, Belgio e Austria, o nazioni strutturate per nazionalità come la Spagna (cioè con una forte autonomia a diversi livelli degli enti sub-nazionali) non sono minimamente paragonabili al nostro sistema: gli enormi poteri degli equivalenti delle nostre Regioni in questi paesi e la buona rappresentatività elettorale dei suddetti enti, rendono utile un Senato che funga da cabina di regia tra le realtà democraticamente elette che compongono fisicamente lo Stato. La Spagna è concettualmente la composizione di diverse nazionalità che, unite, danno forma allo Stato, rappresentato in massima istanza dalla Corona reale. Si è reso storicamente necessario per un paese del genere avere un Senato che non sia espressione della volontà diretta dei cittadini, quanto piuttosto un organo di raccordo tra istituzioni già elette, che possa decidere in maniera unitaria di materie concernenti la pluralità dello Stato stesso. 

L’unica eccezione a questo discorso è la Francia, portata spesso dai difensori del sì come esempio di stato centralizzato con un Senato delle Regioni a elezione indiretta. Ma anche qui esiste l’inghippo. Come prima cosa, in Francia il Senato ha esattamente gli stessi poteri dell’Assemblea Nazionale (la Camera Bassa), tranne per il fatto che non vota la fiducia al Governo. Ogni legge, però, deve passare il vaglio di entrambi i rami del Parlamento e il Senato francese può legiferare su tutto. Come sappiamo, nella riforma Renzi-Boschi non è così, il Senato avrà poteri limitati concernenti solo materie costituzionali, verifica sulle politiche territoriali e poco altro. Ma c’è un altro aspetto da non sottovalutare: il Senato francese è composto da membri eletti in secondo grado tra sindaci, consiglieri municipali, consiglieri dipartimentali e consiglieri regionali. E già il grado di rappresentanza democratica si allarga di molto rispetto al caso italiano. Le assemblee legislative delle Regioni in Francia vengono elette con un complesso sistema proporzionale e i consiglieri sono eletti su circoscrizioni elettorali molto piccole, corrispondenti ai vari dipartimenti. Allo stesso modo le elezioni dipartimentali distribuiscono i seggi su ogni singolo cantone. Ne viene fuori un rapporto democratico strettissimo tra elettori ed eletti, ma soprattutto gli eletti avranno bacini elettorali che riescono ad esercitare su di essi un maggiore controllo democratico (con tutti i limiti del mondo occidentale odierno) anche qualora questi rappresentanti locali venissero eletti in Senato. Infine, la legge elettorale francese per le Regioni non prevede preferenze, ma un rigido voto di lista in due turni elettorali. La differenza è enorme. 

Facciamo un esempio: La senatrice parigina del centrodestra Chantal Jouanno è stata eletta consigliere regionale dell’Ile-de-France come capolista del partito di Sarkozy, con circa 160mila voti di lista al primo turno e 250mila al secondo turno (è il senatore che ha beneficiato del più alto numero di voti di lista). Nel bene e nel male, la sua corsa verso il Senato è stata dunque tutta interna ad equilibri di partito, grazie ai quali è stata scelta prima come capolista alle regionali e l’anno dopo come senatrice, ma la campagna elettorale di fronte agli elettori si è svolta “insieme” a tutti i candidati di lista e in un territorio relativamente piccolo (gli arrondissement centrali della capitale francese). 
Alle elezioni regionali del Lazio del 2013, la lista con più voti nella circoscrizione di Roma è stata il Pd con la bellezza di 800mila voti. Una platea enorme dovuta anche all’ampiezza della circoscrizione (l’intera provincia di Roma), all’interno della quale i singoli candidati ingaggiano una costosissima guerra alle preferenze, in un ambiente politico di obbligato distacco con le singole realtà territoriali. Questo significa che per raggiungere il numero sufficiente di consensi per essere eletto, come è noto, qualsiasi candidato consigliere italiano ha due possibilità: il sostegno di una lista con una fortissima spinta d’opinione (cosa rara ormai ovunque) o il sostegno di uno o più finanziatori disposti a spendere cifre da capogiro per una campagna elettorale capillare. Nessun altro ente oggi, in Italia, vede al suo interno membri legati a filo doppio con gruppi economici, banche, interessi corporativi, grandi aziende, come le Regioni! E ovviamente, qualora il suddetto consigliere regionale venisse nominato senatore, a quali interessi risponderebbe? La riforma costituzionale, così com’è, non farà altro che consolidare nel Parlamento quegli interessi elevando a livello nazionale tanti piccoli potentati incancreniti sui territori di un Paese come il nostro, che avrebbe bisogno di riformare le regole della politica a partire dal livello più basso della sua struttura-Stato, prima di portare avanti una riforma che, a queste condizioni, rischia di diffondere un’infezione peggiore della malattia attuale. Per un attimo pensiamo a cosa significherà portare in Senato e regalare l’immunità parlamentare (che resta tale e quale) a personaggi come i tantissimi incriminati in questi ultimi due anni per gli illeciti commessi nei consigli regionali di tutta Italia, per gli abusi e le appropriazioni indebite, lo smembramento delle risorse, i rapporti con la mafia!   

E’ ovvio che anche la senatrice francese di cui sopra risponderà a rapporti con poteri economici locali – la crisi democratica come dicevo è una cosa seria e diffusissima – ma questi poteri saranno sempre più piccoli e meno asfissianti grazie alla dimensione limitata delle circoscrizioni e all’assenza di preferenze di fronte alla possibilità dell’elezione di secondo grado al Senato.  
Eppure, anche il Senato d’oltralpe viene criticato sin dall’epoca di Lionel Jospin e se ne studia oggi il definitivo superamento, soprattutto per l’effetto di sbilanciamento della rappresentanza politica che produce il risultato pericoloso di maggioranze “fantoccio” rispetto a quelli che sono i reali equilibri del paese. Ma anche per il bassissimo ricambio di classe politica, dovuto per lo più a una legge elettorale che non prevede limiti di mandato nei Consigli regionali: problemi che noi avremmo tali e quali in Italia con il nuovo Senato voluto dai fautori del sì, ai quali piace prendere ad esempio i paesi europei senza prima studiare le grandi differenze e le criticità degli altri sistemi.     

L’Italia ha una storia precisa, che non è quella della Germania né tanto meno quella della Francia. La Germania viene da una tradizione federale per natura, essendo da sempre un’entità suddivisa in principati autonomi, città-stato, Land che compongono la stessa essenza della Nazione. La Francia è uno stato storicamente centralizzato, la cui regionalizzazione è stata funzionale proprio al miglior controllo burocratico di Parigi sul resto di un grande paese da sempre unitario. L’Italia, invece, proviene da una frammentazione più localistica, siamo il paese dei Comuni, dei piccoli ducati, delle signorie e dei borghi sempre autonomi anche quando sottostanti entità più grandi. Abbiamo bisogno di una riforma costituzionale che ci conduca nel futuro, ma per farlo occorre seguire il flusso della nostra storia, della nostra essenza. Per questo un Senato che risponda ad esigenze locali di prossimità, anche nella sua composizione, magari eletto direttamente dai cittadini o con leggi elettorali regionali profondamente rivisitate rispetto ad oggi, potrebbe fare al caso nostro molto più di quanto non faccia questa pallida imitazione di un senato federale che si vorrebbe mettere in campo.

Le città e le regioni di tutto il mondo, con la crisi inevitabile del modello di Stato-nazione novecentesco, stanno diventando le soggettività più attive nella composizione dei nuovi auspicabili macro-enti continentali e sovranazionali. E in questo, davvero, l’Europa ha le carte in regola per mostrarsi come un’avanguardia globale. Allora diventa necessario, anche in Italia, dare prima di tutto una maggiore autonomia agli enti di prossimità affinché possano, tra le altre cose, interagire direttamente con gli enti locali di tutta Europa e con le stesse Istituzioni comunitarie (che è un’altra cosa dal vecchio concetto di federalismo). Questo, che altrove è la base per ogni serio sistema bicamerale con un Senato delle territorialità, con la riforma in questione viene addirittura peggiorato e portato indietro di un secolo con la riformulazione delle competenze tra Stato e Regioni (Titolo V). In totale controtendenza con il percorso intrapreso in quasi tutta Europa, la riforma toglierà molte delle competenze regionali per riportarle nelle mani dello Stato centralizzato (in Francia lo Stato cede pezzi di potere alle regioni in un processo ininterrotto dal 1956). L’area di competenza concorrente viene soppressa (perché comportava lungaggini e confusioni interpretative) ma le competenze vengono sbilanciate in netto favore dello Stato, tra le quali ricadono la maggior parte delle materie di governo del territorio! Questo, unitamente al Senato sopra descritto e alla legge elettorale con la quale si combinerà tale sistema, produrrà a tutti gli effetti un sistema più autoritario, centralizzato e privo del controllo dei cittadini che vengono ulteriormente “allontanati” dai centri decisionali che incidono sulle loro vite. Con buona pace dei sostenitori del sì.  

Questo ragionamento, come ho detto, non vuole essere una prova goffa di diritto comparato. L’unico intento è quello di mettere in evidenza le incongruenze politiche del fronte del sì, quando questo si cimenta in un enfatico storytelling sull’Italia che cammina, l’Italia funzionale, europea, del futuro, mentre invece si sta solo cercando di portare a casa un piccolo risultato messo insieme in fretta e furia, il cui unico intento reale sembra quello di voler garantire un approdo sicuro e un “tetto” istituzionale sopra la testa di tanti interessi economico-politici che poco hanno a che fare con la democrazia. E per farlo, la ristrutturazione del Senato, argomento in questo paese da sempre atteso come una riforma inevitabile, era un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela scappare.