29 Maggio 2016 - Francesca De Rosa - Divulgazione

Vincolo di mandato, sì o no?

L’uscita dalla maggioranza governativa ciampinese del Consigliere comunale Guglielmo Abbondati, rappresentante della lista Sel-Tutta un’altra storia, ci da una singolare e inaspettata occasione per affrontare un argomento di rilevanza costituzionale. A seguito delle dimissioni del suddetto Consigliere, infatti, abbiamo assistito sui social network a un dibattito tra esponenti della maggioranza, del Partito Democratico, e della minoranza, soprattutto del Movimento Cinque Stelle, sull’esistenza e sulla paternità di un vincolo di mandato imperativo che le cariche elettive, a detta loro, dovrebbero rispettare. 

È un dibattito surreale, soprattutto nel contesto di una più ampia discussione sulla riforma costituzionale varata da questo Governo che verrà sottoposta a referendum confermativo il prossimo autunno. È surreale perché sul tema non c’è discussione che possa esistere: l’art. 67 della nostra Costituzione, sia quella attuale, sia quella riformata, ribadisce il principio del divieto di mandato imperativo, e non potrebbe essere altrimenti data la funzione di garanzia democratica a cui presiede. Il divieto di mandato imperativo vanta origini che risalgono agli albori del costituzionalismo moderno, quando si trattò di liberare il parlamentare dal vincolo giuridico (mandato) di cura degli interessi particolari di coloro che lo avessero eletto, in favore di una concezione della rappresentanza imperniata sul perseguimento dell’interesse generale. Nel mutato contesto attuale, segnato, per un verso dalla crescita dell’elettorato attivo con l’affermazione del suffragio universale e la conseguente pluralizzazione sociale del corpo elettorale e, per l’altro, dalla comparsa della mediazione partitica, questo principio non ha perso la sua ragion d’essere: lo si è interpretato come idoneo ad assicurare al parlamentare la posizione di necessaria autonomia, non più tanto nei confronti dei propri elettori, quanto soprattutto dello stesso partito nelle cui liste è stato eletto. 

L’elezione, dunque, non è un contratto e l’indipendenza dell’eletto da qualsiasi potere politico, economico o sociale deve essere tutelata. Ciascun parlamentare, nello svolgimento della sua attività può agire liberamente non esistendo alcun mezzo giuridico per chiamarlo a rispondere delle modalità con cui ha esercitato il proprio ruolo. Resta solo la sua responsabilità politica davanti ai cittadini, per la quale alle prossime elezioni potrebbe non essere rieletto.

La norma contenuta nell’articolo 67 non è esclusiva della Costituzione italiana ma è comune alla maggior parte delle democrazie rappresentative (attualmente solo quattro paesi al mondo non la contemplano e cioè Portogallo, Panama, India e Bangladesh). La teoria del libero mandato (divieto di mandato imperativo) è stata formulata dal politico e filosofo britannico Edmund Burke già prima della Rivoluzione Francese nel suo celebre Discorso agli elettori di Bristol  il 3 novembre 1774, propugnando la difesa dei principi della democrazia rappresentativa contro l’idea secondo cui gli eletti dovessero agire esclusivamente a difesa dei propri elettori. Burke affermò: “Il parlamento non è un congresso di ambasciatori di opposti e ostili interessi, interessi che ciascuno deve tutelare come agente o avvocato; il parlamento è assemblea deliberante di una nazione, con un solo interesse, quello intero, dove non dovrebbero essere di guida interessi e pregiudizi locali, ma il bene generale”. Il principio di libero mandato fu poi inserito nella Costituzione francese del 1791, in netta discontinuità con la situazione presente nelle assemblee rappresentative dell’Ancien Régime, dove il rapporto di rappresentanza tra eletto ed elettori era un rapporto privatistico, quasi un contratto. Tornando all’Italia, il divieto di mandato imperativo fu introdotto nello Statuto Albertino e successivamente nella Costituzione Repubblicana del 1948: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Con la riforma Costituzionale Renzi-Boschi, l’art. 67 viene in parte modificato per adattarsi la nuovo Senato delle Regioni (sarà oggetto di approfondimento in successivi articoli): la nozione di rappresentante della Nazione viene meno per i Senatori (che sono rappresentanti degli enti territoriali dove sono eletti) ma non per i deputati, e permane comunque l’affermazione del libero mandato “I membri del Parlamento esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato”.

Lo stesso mandato imperativo vigente nell’Ancien Régime (che, lo ricordiamo, è una locuzione che fu utilizzata dai rivoluzionari francesi per individuare, con una connotazione negativa, il sistema di governo precedente al 1789 e cioè la monarchia assoluta dei Valois e dei Borbone) è stata la giustificazione storica a cui hanno fatto riferimento alcuni politici locali del Partito Democratico per affermare il mandato imperativo in Consiglio Comunale. Ma, per fortuna, Ciampino non è la Francia di Luigi XVI.

Il libero mandato è stato oggetto, poi, di forti critiche da parte del comico e leader del Movimento Cinque Stelle che ha più volte chiesto le dimissioni di parlamentari, consiglieri regionali o locali, che eletti nella propria formazione politica hanno successivamente cambiato Gruppo politico. Tentativi di natura privata per tentare di aggirare la norma dell’art. 67 (ma di cui ci sfugge la legittimità giuridica) sono stati creati per vincolare l’eletto al partito. È stato, dunque, affermato con veemenza da alcuni militanti locali grillini la paternità dell’idea del vincolo di mandato. Ma, sempre per fortuna, Ciampino è un ente locale che ancora risponde ai principi della nostra Carta Costituzionale.

È innegabilmente sotto gli occhi di tutti il trasformismo che affligge la nostra democrazia rappresentativa: membri delle nostre Assemblee legislative che a seconda della convenienza politica e non della legittima evoluzione di opinione, di pensiero, passano da uno schieramento politico all’altro con disinvolte giravolte. È un problema vero, ma che non può essere affrontato invocando l’abolizione di un principio costituzionale che, garantendo indipendenza e libertà di opinione, tutela la nostra democrazia. La soluzione forse va ricercata nel rapporto tra i corpi intermedi, la società e lo Stato, rapporto che si è incancrenito e che ha generato una classe dirigente inadeguata per il nostro tempo. Ma questa è un’altra storia.