7 Febbraio 2021 - Lorenzo Natella - Divulgazione

10 febbraio e rotta balcanica: non può esserci Ricordo nell’ipocrisia

C’è una piazza in Europa, dove un tempo correva un muro di confine. Si chiama piazza Transalpina, per metà appartiene alla città italiana di Gorizia e per l’altra metà alla città slovena di Nova Gorica. Attraversare la piazza da lato a lato significa trovarsi nella stessa città ma in due nazioni diverse, poiché Gorizia rappresenta per il sud Europa una specie di seconda Berlino, un tempo tagliata fisicamente dal muro della cortina di ferro che doveva dividere il mondo comunista dall’occidente. Ma quel muro dal 1947 divideva anche famiglie, terre, storie di persone in carne ed ossa, in un territorio multietnico, meticcio, e dunque “fastidioso” per le logiche identitarie di una parte e dell’altra. Oggi non solo il muro non c’è più, ma da quando nel 2004 la Slovenia è entrata nell’Unione Europea, qui non c’è più nemmeno il confine. 

Insieme ai rispettivi concittadini, radunati al centro di piazza Transalpina, il 20 dicembre 2020 i due sindaci delle “due Gorizie” hanno accolto la proclamazione delle stesse, congiuntamente, come Capitali europee della cultura per il 2025. Il primo, Rodolfo Ziberna, è un dirigente di Forza Italia ed è sindaco di Gorizia con una coalizione di centrodestra, con dentro anche Lega e Fratelli d’Italia. Il secondo, Klemen Miklavic, è stato eletto sindaco di Nova Gorica con una lista civica della sinistra ecologista e sociale, sostenuta anche dai marxisti sloveni di Levica. Già questo fatto – queste due città che stanno sperimentando un modello vincente di cooperazione a prescindere dall’ideologia delle rispettive governance – basterebbe a mettere in crisi tutto l’impianto discorsivo identitario e iper-politicizzato che ogni anno dobbiamo sorbirci, ben lontano dalla serietà delle ricerche storiche, il 10 febbraio per la Giornata del Ricordo. Ma c’è dell’altro. 

Il confine italo-sloveno, cioè quello stesso confine orientale che tanta sofferenza e tanto dolore ha vissuto nel corso del ‘900, è oggi l’ultima tappa della rotta balcanica. In un processo politico foraggiato dalla UE, le persone migranti che riescono a fuoriuscire dalla Turchia risalgono il collo di bottiglia delle frontiere balcaniche, che fungono da filtro fino al confine europeo ufficiale, quello tra Bosnia e Croazia, e infine a quello dell’antica cortina di ferro tra la Slovenia e il Friuli Venezia Giulia. Nel giugno del 2019, in virtù di un accordo tra i due governi, una unità di polizia congiunta italo-slovena ha iniziato a pattugliare le oltre 120 miglia di confine con l’obiettivo di intercettare e respingere esseri umani. Contestualmente, l’idea ulteriore dell’allora ministro dell’interno Salvini, del suo omologo sloveno e del governatore friulano Fedriga, era quella di costruire barriere fisiche lungo la stessa linea di confine. 

Così, la destra italiana che ha sempre evocato ed inneggiato al mito della caduta del muro di Gorizia, si trovò a voler rialzare quello stesso muro. Ad opporsi furono proprio le comunità di confine. Il sindaco di Gorizia, noto per avere un approccio non certo morbido ed anzi portatore di politiche ultra-securitarie, aveva bocciato l’idea come inutile e costosa. “Sono contrario al muro, per noi sarebbe una iattura. Chi ha visto la cortina di ferro che ha tagliato in due la città sa bene che non è la soluzione giusta per sigillare la rotta balcanica, dalla quale tra l’altro i flussi migratori sono scarsi”. Sulla scarsità dei flussi Ziberna avrebbe presto cambiato toni, in linea con le politiche nazionali di esternalizzare il confine lontano dal mio giardino, giù in Bosnia. Ma sul muro italo-sloveno persino la Lega goriziana si disse contraria. Ben più duro il sindaco Miklavic, contrario anche ai pattugliamenti: “Abbiamo provato a cancellare questo confine dalle nostre menti e il risultato positivo negli anni è ben visibile, ma già si vedono i primi effetti psicologici dei pattugliamenti di polizia, le persone iniziano a pensare come facevano quando il muro era in piedi. Perciò ogni rinforzo di questo confine è un vero disastro”. A luglio 2019 la città di Nova Gorica è scesa massicciamente in piazza contro queste misure bilaterali. 

La cosiddetta rotta balcanica è tornata a far parlare di sé a inizio 2021. Il gioco sporco a cui giocano l’Unione Europea e i paesi dell’ex Jugoslavia è semplice. Formalmente si chiamano “riammissioni senza formalità”, di fatto sono respingimenti illegali. Con tale strumento l’Italia e gli altri paesi europei sulla rotta balcanica respingono i richiedenti asilo in deroga alle convenzioni internazionali e alle stesse leggi europee e nazionali. “Un perverso gioco di polizie”, come lo definisce un appello firmato da alcune personalità politiche nel dicembre scorso, “in cui da Trieste i migranti che riescono ad arrivare vengono consegnati alla polizia slovena, poi a quella croata ed infine respinti in Bosnia, abbandonati in tendopoli fatiscenti tra le montagne e sotto la neve. Sono in prevalenza ragazzi afghani, siriani, iracheni. Provengono da Paesi che i governi europei hanno contribuito a radere al suolo e su cui oggi non siamo capaci di assumerci una responsabilità”. Nei Balcani sta avvenendo, quest’inverno, l’ennesima catastrofe umanitaria, che ha già prodotto morti, ferite insanabili, violenze di ogni sorta, anche da parte di milizie private ma autorizzate dai governi, che mettono in atto aggressioni, rapine, torture, stupri, mutilazioni, nei confronti di uomini, donne e bambini.

Secondo quanto riporta il senatore Gregorio de Falco, nel 2019 la Commissione europea ha incrementato di 7 milioni di euro i fondi destinati alla Croazia per la gestione delle frontiere. “In pratica si sta facendo in Croazia quello che si fa in Libia: l’Europa ha esternalizzato il controllo delle frontiere per fermare i migranti, di fatto consentendo qualunque metodo per svolgere questo compito, anche criminale”. Ma tutto questo parte dal nostro confine orientale, cioè dai respingimenti verso la Slovenia che il Tribunale di Roma ha definito a tutti gli effetti come illegali, con una sentenza del 18 gennaio che non lascia alibi al Viminale. 

La mattina di Natale una donna afghana ha partorito una bambina in una grotta carsica, sul lato sloveno del confine, nel bel mezzo della foresta con temperature sotto lo zero. La bambina è nata morta, dopo che sua mamma aveva dovuto vagare al gelo, respinta da un confine all’altro tra i Balcani e l’Italia. Il complesso di grotte dove trovano rifugio i migranti e dove questa donna è stata letteralmente arrestata mentre partoriva sua figlia già morta, si chiama Črnotiče. È una foiba. Al suo interno furono trovati i resti di diverse decine di vittime del periodo della seconda guerra mondiale, tutte non identificate. 

Occorre pubblicamente accusare l’ipocrisia che dilaga ogni 10 febbraio. Chi pretende di piangere le vittime di una parte sola, chi nega o minimizza pur avendo gli strumenti per studiare e capire. Ma soprattutto occorre accusare a gran voce chi si riempie la bocca di “Ricordo” e allo stesso tempo volta le spalle alle persone che muoiono oggi sul confine orientale, o peggio ancora, contribuisce a provocare queste tragedie. Chi respinge una famiglia afghana sul Carso, non si azzardi nemmeno a nominarle le vittime delle foibe. Non si azzardi a farlo chi in parlamento ha votato per finanziare la polizia croata, le milizie libiche, il regime turco. Taccia chi ha contribuito alla politica di appalto dei confini europei, provocando i più grandi e tragici infoibamenti dell’era attuale, quelli nelle profondità del mar mediterraneo!
 
Il 10 febbraio ci ricorda quanto può far male un confine imposto contro la volontà delle comunità, quanta violenza può produrre una linea tracciata dall’alto, con militari e filo spinato. In questo articolo non si parla di storia, per chi abbia voglia e interesse si possono trovare lezioni e conferenze approfondite anche online. Ma se deve esistere un giorno del Ricordo, deve essere da stimolo a ciò che accade oggi, a partire da quelle terre. Se il 10 febbraio fosse una ricorrenza degna di un paese che ha fatto i conti col proprio passato, quale noi non siamo, questo sarebbe un giorno di riflessione, studio, raccoglimento e azione per la pace tra i popoli. Non certo la boutade ideologica cui siamo costretti ad assistere ogni anno.