23 Marzo 2016 - Lorenzo Natella - Divulgazione

Che succede in Europa?

In queste ore di tristezza e sgomento mi è tornato in mente un ricordo piuttosto metaforico. Due anni fa, visitando il Belgio per vacanza, la città di Bruxelles mi ha accolto con una manifestazione in piazza Luxembourg, sotto al Parlamento europeo, di curdi-yazidi che protestavano contro l’Isis e contro l’immobilismo delle istituzioni europee nei confronti della situazione in Siria e Iraq. E’ stata la prima cosa che ho visto e toccato con mano della capitale europea. Meno di due anni dopo i curdi e gli yazidi si sarebbero auto-liberati dall’Isis e nel nord della Siria sarebbe nato, con un costo di vite altissimo, il Rojava autonomo: unico modello politico esistente ad oggi capace di mettere in ginocchio il mostro nero del terrore, non solo militarmente. A Bruxelles li ho visti agire, metterci la faccia, alla fine hanno vinto. Ma hanno vinto nella loro Siria, non certo qui in Europa.
Infatti, pochi mesi ancora, e l’Isis avrebbe colpito prima Parigi e poi Bruxelles, in quegli stessi luoghi, ad opera di cittadini europei armati o imbottiti di esplosivo, nati e cresciuti lontano dalle pianure aride della Siria, ma nel cuore delle periferie urbane europee.

Che succede in Europa? Dove stavano questi giovani assassini fino a ieri? Perché non li abbiamo fermati prima? Perché non siamo riusciti a parlarci?
La risposta è: non li abbiamo visti. Non possiamo, perché queste persone sono degli invisibili. Gli ultimi, i reietti, gli scarti della nostra opulenza sociale. Sono ragazzi scuri al ciglio delle strade, nelle cucine dei ristoranti, nelle sacche della disoccupazione di massa. Figli o nipoti di gente mediorientale venuta in Europa (o costretta a venirci) per tutte le cause socio-economiche figlie della colonizzazione del novecento. Sono sottoproletariato urbano, indifeso e incazzato col mondo.

Questi giovani sono soli, non hanno nessuno dalla loro parte. Dalle terre lontane dei loro nonni, però, iniziano ad arrivare idee nuove, o meglio, idee vecchissime rivisitate in senso moderno. Sui social network in arabo si parla di rinascita islamica, di legge coranica, di jihad. All’interno della comunità religiosa, di per sé sempre innocua, si annidano personaggi carismatici che sembrano aver trovato una risposta alla rabbia di queste generazioni sole: il fondamentalismo religioso.
Da una parte l’Islam fornisce un metodo per non impazzire, fatto di regole collettive meravigliose e senso di comunità. Allo stesso tempo, però, intorno alle moschee e perfino negli ambienti criminali iniziano ad aggirarsi i reclutatori delle organizzazioni più violente dell’ideologia salafita nelle sue peggiori mutazioni genetiche. Tra cui l’Isis.

Tutto ciò accade nelle banlieu, nelle periferie di gran parte dell’Europa, dove queste persone sono state deliberatamente abbandonate e lasciate in balia di nuovi pericolosi venti che, silenziosamente, arrivavano da est. Da terre in cui la stessa Europa, attraverso anni di guerre e politiche folli, ha contribuito attivamente alla nascita e crescita di organizzazioni senza scrupoli, ramificate e attualmente incontrollabili. La confessione di Tony Blair in tal senso è emblematica: “Chiedo scusa per la guerra in Iraq, ha aiutato la nascita dell’Isis”.

Ovviamente i ragazzi europei di fede islamica che abbracciano idee fondamentaliste sono una esigua minoranza all’interno della loro stessa comunità, questo dobbiamo averlo presente. Se non fossero una minoranza, verrebbe meno perfino la strategia e la logistica del terrorismo. La maggior parte dei giovani musulmani europei sono persone che, come noi, combattono le loro battaglie quotidiane per portare a casa pane e dignità: sono lavoratori e disoccupati al pari di tutti i loro coetanei. Giovani europei a tutti gli effetti, di un’Europa multietnica e multiculturale, cui l’ideologia fondamentalista vorrebbe succhiare dalle vene la stessa essenza di gioventù.   

Eppure, un tempo non lontano, il compito della società era proprio quello di recuperare il disagio economico-sociale attraverso le sue strutture per evitare la crescita di sacche di fragilità diffusa. E dove non arrivava lo Stato – il quale per sua stessa essenza tende sempre a prediligere la repressione alla prevenzione – arrivavano le organizzazioni sociali.
Nate e sviluppate in Europa, le organizzazioni sociali hanno oggi quasi del tutto abdicato al loro compito di supporto popolare e socio-culturale. Il solidarismo cattolico, il mutualismo socialista, l’autonomia libertaria, perfino il civismo post-ideologico, non sono stati in grado di interagire con il popolo di origine mediorientale che compone una significativa percentuale del popolo europeo, o perché totalmente assopiti o perché volutamente indeboliti proprio dallo Stato e dai nuovi poteri economici che nel frattempo, in tutto l’occidente, hanno fatto terra bruciata delle politiche sociali.

In assenza di un modello alternativo per queste persone, la via più facile diventa quella identitaria, la religione dei propri nonni (distorta e resa violenta), il mito della guerra santa. Anche le organizzazioni islamiste operano un’attenta politica di solidarietà. In nord Africa i salafiti distribuiscono latte, pane e medicine ai poveri; facendo così aprono un canale attraverso il quale introdurre le persone normali alle ragioni di un’ideologia spesso pericolosa.
Ma che fine ha fatto l’organizzazione sociale, indipendente e popolare, in Europa? Quella che dovrebbe parlare con gli ultimi e con gli invisibili attraverso i valori che poi sarebbero alla base dell’Europa Unita nata a Ventotene, a margine della più terribile guerra della storia.

In alcuni casi è semplicemente assuefatta da questa nuova Europa, che è ormai già vecchia, grassa, felice e ignara come una vacca che va al macello. In altri casi, però, c’è un’umanità europea nuova davvero, viva e vegeta, fatta di persone che vogliono rompere le barriere e vincere la reticenza delle logiche burocratiche che hanno fallito sotto i colpi della cosiddetta austerity: I ragazzi e le ragazze impegnate in nuove e vitali forme di associazionismo, le realtà che propongono forme di lavoro diverse dalle logiche produttive classiche, gli intellettuali di strada che si impegnano nella culturalizzazione delle periferie, i giovani che nelle nostre città fanno volontariato con i migranti (i rifugiati musulmani oggi rappresentano una nostra grande speranza contro il terrorismo in Europa, avendo essi conosciuto dal vivo la guerra e la sharia).
Questa è l’organizzazione sociale su cui dovrebbe porre le speranze l’Europa!

Allora ripropongo la domanda iniziale. Che succede in Europa?
Perché la gente muore negli aeroporti e ai concerti rock? Cosa ci impedisce di fermare la mano degli assassini?
In Europa succede questo: Il novembre scorso, a Bruxelles, nel quartiere di Schaerbeek – noto alle cronache più che mai in queste ore – circa 200 poliziotti hanno sgomberato e smantellato l’Utopirate, centro socio-residenziale occupato (squat) attivo nelle battaglie di miglioramento delle condizioni del quartiere e nella soluzione dell’emergenza abitativa per gli stranieri. Risultato: oggi a Schaerbeek c’è un presidio d’integrazione in meno e un covo terrorista in più, quello degli attentatori del 22 marzo.
A Parigi, le associazioni di volontari europei che operano nel campo profughi a Calais, vengono sistematicamente attaccate, intimidite, ostacolate dall’azione congiunta delle forze dell’ordine e di organizzazioni neo-fasciste locali. Gli esperimenti di autogestione che stavano nascendo a Calais sono stati troncati dalle autorità attraverso lo smantellamento definitivo della “Jungle” a marzo.
A Roma, a gennaio, chiude i battenti il Centro Baobab, luogo di solidarietà e accoglienza dove convivevano stranieri, migranti e italiani, in un ambiente considerato anche da autorevoli istituzioni europee come un eccezionale modello di convivenza.
Un anno prima, ad Amburgo – una delle città tedesche colpite dai disordini dell’ultimo Capodanno -, viene chiuso dalle autorità lo storico centro sociale Rote Flora, presidio di integrazione e conflitto sociale dove vivevano anche diversi rifugiati africani provenienti da Lampedusa.  
L’elenco potrebbe continuare all’infinito.

Questo succede in Europa: che tanto le istituzioni comunitarie quanto gli Stati sovrani non hanno colto il punto del problema. Non possono coglierlo, perché ancora impantanati nella vecchia Europa che stenta a morire e impossibilitati a vedere la nuova Europa che stenta a nascere. Chiudere luoghi e ostacolare esperienze dove viene praticata l’integrazione, il mutualismo e la proposta di un’alternativa all’odio identitario, è semplicemente folle. Avendo peraltro l’esempio del Rojava curdo, dove proprio attraverso l’integrazione religiosa e la pratica di un modello alternativo, è stato debellato l’Isis da una parte della Siria.
Se le politiche di questo tipo non cambieranno, se l’organizzazione sociale in Europa non tornerà ad avere un ruolo attivo nelle nostre periferie, rischiamo di consegnare il Continente all’escalation dell’odio reciproco. I risultati elettorali dell’estrema destra xenofoba e islamofoba parlano chiaro proprio perché sono più evidenti in quei paesi dove la spirale è alimentata da politiche repressive nei confronti dell’autonomia sociale, attentati e disordini ad opera delle minoranze etniche e intolleranza anche violenta da parte dei gruppi xenofobi.

Spetta dunque a tutti noi, che viviamo le nostre realtà e le nostre periferie, diventare presenza militante e instancabile laddove esiste disagio, abbandono, rassegnazione. Chiunque di noi, come chi scrive, sia impegnato nella propria vita in attività di impegno sociale, politico, culturale, artistico, solidale, dovrebbe avere come obiettivo finale la costruzione di un modello di società capace di estirpare l’odio tra ultimi in tutte le sue forme. Il terrorismo si può sconfiggere solo così, con la nostra azione costante di “esercito” pacifico di strada, che può nascere unendo le competenze, le specificità, le passioni e le rivendicazioni di chi agisce dal basso della vita di tutti i giorni. Nelle associazioni, nei partiti, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, nelle parrocchie e nelle moschee.
Affinché non dovremo più contare i morti. E qualcuno, venendo a visitare le nostre città, possa dire: li ho visti agire, metterci la faccia, alla fine hanno vinto.