30 Gennaio 2020 - Lorenzo Natella - Divulgazione

Economia popolare, fra la via Emilia e il West

Cooperative rosse, cooperative bianche, false coop, modello Buzzi, business dell’accoglienza. Sono termini che fanno parte del linguaggio comune dell’Italia contemporanea, che parlano di questioni reali, di problemi anche strutturali del nostro paese. Li sentiamo da sempre, li abbiamo sentiti nuovamente durante la campagna elettorale in Emilia Romagna proprio perché quella terra rappresenta il cuore storico e identitario del cooperativismo operaio. Tuttavia, anche il giorno dopo le elezioni, queste stesse locuzioni che – ripeto – testimoniano una situazione esistente, sono state pronunciate non solo da destra, ma anche da settori della sinistra radicale che hanno rinunciato ad un’analisi più profonda della realtà economica di quelle terre che dimostrano di non conoscere, piegandosi con superficialità ai costrutti dominanti della vulgata liberista. E questo è imperdonabile. 

Ma andiamo con ordine. Negli ultimi anni, soprattutto a seguito di indagini giudiziarie e conseguenti ondate politico-mediatiche, si compie una mutazione definitiva agli occhi del grande pubblico, portato ad identificare il cooperativismo tout-court come un mondo malato, corrotto, potenzialmente criminogeno. A beneficiarne indirettamente sarà la cricca economica di sempre, magnatizia e oligarchica, la struttura tradizionale del capitalismo italiano, implicata praticamente in ognuna delle suddette indagini giudiziarie ma immune al giudizio della macchina mediatica, con un buon capro espiatorio e parecchia concorrenza fuori dai piedi. 

Lo sa bene chi vive e milita tra periferia e “provincia meccanica”, per esempio proprio in Emilia dove l’economia cooperativa era stata il più grande strumento di riscatto per i lavoratori esclusi dal mercato a partire dal dopoguerra. Le cooperative nascevano come modelli virtuosi di inclusione lavorativa o abitativa, ad opera di contadini, disoccupati, famiglie baraccate, migranti dal mezzogiorno. La degenerazione combacia con l’avvento del corso neoliberista, promosso ampiamente da quella sinistra istituzionale che del cooperativismo si era fatta tutrice. Ma anche negli ambienti più radicali, laddove il modello restava autenticamente conflittuale, non sono mancate le devianze tipiche del sistema.

Economia popolare significa che le persone espulse dal mercato del lavoro se ne inventano uno. Il concetto nasce in America Latina, ma l’economia popolare esiste da sempre in ogni angolo del mondo. Le sue forme possono essere infinite e tutte sono costrette dal mercato nell’ambito dell’informalità, pena la repressione o l’addomesticamento da parte del potere politico. In Argentina, dove l’economia popolare ha raggiunto livelli inediti di autorganizzazione di classe, uno dei suoi maggiori esponenti teorici e pratici è Juan Grabois, giurista, sindacalista e leader sociale riconosciuto a livello mondiale. In questo suo intervento presentato in Vaticano nel 2013, sono contenuti alcuni degli spunti più lucidi per capire cos’è l’economia popolare e come si affronta la sua messa in atto coerente. Grabois parla dell’esistenza di un circuito economico periferico, che non è di per sé buono né cattivo, ma è il prodotto naturale del sistema in cui viviamo. Un circuito economico con “vita propria”, una vera e propria economia residuale dove le tendenze individualiste proprie del sistema, la tentazione del delitto, il clientelismo politico e il potere delle mafie, si scontrano con la vocazione solidale degli ultimi e delle organizzazioni popolari nella lotta quotidiana per il territorio, le risorse, lo spazio pubblico, le politiche sociali.  

In generale, in questa grey economy che sfugge al controllo statistico dello Stato, i mezzi di produzione sono a portata di mano dei settori popolari. Ma questo non vuol dire che tali mezzi siano sfruttati collettivamente, che il prodotto di questa economia si distribuisca in maniera egualitaria, né che le relazioni sociali siano orizzontali. Tutt’altro. Nella realtà quello che vediamo sono relazioni di sfruttamento dove i più forti dominano determinate nicchie di mercato, di solito in connivenza con le forze di sicurezza, col potere politico e con imprenditori irresponsabili. (…) Di fronte a questa tendenza alla strutturazione padronal-mafiosa l’unico potere che si interpone è quello delle organizzazioni popolari. Attraverso l’associazione orizzontale dei lavoratori per conto proprio, la creazione di cooperative (…) e soprattutto la lotta per la distribuzione progressiva della ricchezza sociale e l’applicazione di politiche pubbliche popolari, i lavoratori esclusi lottano contro lo sfruttamento e la precarietà. 

E’ proprio a questo punto che emerge tutta la differenza con quel modello di cooperativismo artificioso che in moltissimi casi si è venuto a sviluppare a partire dagli anni ‘90, il quale crea quasi una coercizione al lavoro cooperativo, replicando orizzontalmente tutti i difetti del capitalismo: Si parla di “economia sociale” e di “economia solidale” per caratterizzare la rete di imprese cooperative o senza scopo di lucro. Questa definizione può portarci alla falsa convinzione che, come per magia, si possono integrare i lavoratori esclusi in imprese sociali orizzontali create in laboratorio. (…) E’ importante capire che il settore informale dell’economia si presenta come una realtà altamente condizionata da fattori esterni e non come una costruzione sociale endogena dei settori popolari.

Dunque torniamo a noi. Come sa bene chi conosce il mondo del lavoro informale in Italia, esistono centinaia di unità di lavoro orizzontali che rispondono ai criteri di giustizia sociale dell’economia popolare di cui parla Juan Grabois. Sono soprattutto cooperative di piccole dimensioni, ma anche fabbriche recuperate, forme associative di produzione e consumo che nascono e si sviluppano secondo principi di inclusione lavorativa dei settori marginalizzati. Spesso queste realtà se la passano male, non solo economicamente, ma anche perché l’assalto contro il modello popolare è così ben orchestrato da non concedere distinzioni. Pensiamo a RiMaflow o alle cooperative di Riace, entrambi casi di economia popolare contro cui l’aggressione politica si è sviluppata attraverso una violentissima guerra giudiziaria e mediatica. E’ quello che gli addetti ai lavori chiamano lawfare e che in America Latina conoscono molto bene, perché è il sistema di persecuzione usato contro le esperienze politiche e sociali popolari. Per la morale capitalista è intollerabile che le persone che il mercato libero ha buttato fuori, decidano autonomamente di riappropriarsi di risorse e mezzi di produzione e consumo! 

Ma la criminalizzazione dell’economia popolare ha origini fisiologiche proprie del mondo capitalista, sin dalle origini. Marx nel 1842 usava il caso dei raccoglitori di legna secca nei boschi, trattati dalla legge come ladri, per avanzare per la prima volta l’idea che tutta la proprietà privata fosse sostanzialmente un furto. A distanza di centosessanta anni, nel 2002, un rampante politico argentino, candidato del centrodestra alla guida della Provincia di Buenos Aires, dichiarò pubblicamente che avrebbe “estirpato i cartoneros dalle strade”. I cartoneros erano disoccupati poveri dell’area metropolitana della Capitale, che a seguito della crisi del 2001 decisero di inventarsi un lavoro. Partivano in treno ogni mattina per andare a raccogliere quintali di carta nel centro di Buenos Aires, per poi rivenderla a scopo di riuso e riciclo. Il candidato governatore disse senza mezzi termini che quello della carta era un “business milionario” e che i cartoneros avevano un’attitudine delittuosa perché “rubano l’immondizia”. Il politico in questione si chiama Mauricio Macri, presidente dell’Argentina dal 2015 al 2019. Ricandidato per un secondo mandato ha perso contro lo sfidante della coalizione peronista di sinistra, il Frente de Todos di cui fanno parte anche i movimenti che hanno organizzato, tutelato e perfino candidato i cartoneros di Buenos Aires. 

Come è stato possibile in Argentina ribaltare il tavolo fino al punto che quel politico arrogante, oggi all’opposizione, si ritrova i lavoratori esclusi che lui voleva “estirpare” seduti nei banchi della maggioranza parlamentare a guidare il Paese? Pensiamo alla criminalizzazione in Italia del lavoro di raccoglitore di ferro vecchio, per lo più svolto da persone di etnia rom e sinti, e immaginiamo a quanta strada dovremo fare prima di vedere uno di quei lavoratori, non solo regolarizzati ma in grado di esercitare diritti politici attivi! In Argentina è stato possibile – nonostante l’odio etnico-classista tutt’altro che estirpato – grazie ai movimenti popolari che hanno lottato innanzitutto per la dignità dei lavoratori esclusi. Questo è lo scopo del MTE (Movimiento de Trabajadores Excluidos) guidato proprio da Grabois, il cui primo obiettivo fu quello di avere un’organizzazione che mediasse con le forze dell’ordine. Ottenute le prime vittorie nei commissariati, la battaglia si è spostata nel braccio di ferro coi governi e nella nascita di esperienze cooperative, con l’obiettivo della loro regolarizzazione. Oggi i cartoneros sono considerati “riciclatori” e non più raccoglitori illegali. Il più grande impianto di riciclaggio del Paese è di proprietà statale ma gestito da una cooperativa del MTE, che processa 80 tonnellate di residuo al giorno. Con 3800 soci è la più grande cooperativa del Sudamerica. 

E in Emilia Romagna? Le cose sono molto diverse? Siamo sicuri che la vittoria del centrosinistra emiliano, con tutti i suoi limiti e la sua adesione al modello dominante, sia verosimilmente da imputare in toto ad “un sistema corporativo e clientelare (…). Un sistema, come quello delle cooperative, che sfrutta duramente manodopera migrante e giovanile, che sulla riviera romagnola impiega lavoro nero, che inquina il territorio e specula sul cemento”? La dichiarazione, tratta dall’analisi del voto di un partito della sinistra autonoma, dice in parte una cosa reale. In parte quel sistema “padronal-mafioso” che abbiamo descritto con Juan Grabois in modo un po’ più articolato, è responsabile di una fetta di consenso del centrosinistra locale. Tuttavia, la sbrigatività sconcertante e superficiale della dichiarazione ha l’effetto di ricalcare il linguaggio e i temi della stessa destra “manettara”, estendendoli rischiosamente a tutta una miriade di realtà dell’economia popolare locale, autorganizzata, di origine conflittuale, che nel centrosinistra emiliano ha trovato storicamente i suoi interlocutori, pur con alti e bassi, contribuendo all’emancipazione di tanti lavoratori esclusi. 

L’economia informale preesiste alle forme di organizzazione popolare, le quali arrivano come risposta all’esclusione lavorativa a seguito di un processo rivendicativo, che nasce spesso con l’obiettivo primario della sopravvivenza o della sicurezza fisica dei lavoratori esclusi: Il sindacato dei manteros (venditori ambulanti africani) a Barcellona, le cooperative contro il caporalato in sud Italia, le fattorie sociali nelle zone colpite dal sisma. Nel 1993 un gruppo di disoccupati senza fissa dimora di Bologna, due volte esclusi perché senza lavoro e senza casa, decidono insieme ad alcuni attivisti di fondare un giornale di strada. Un progetto che ha l’obiettivo pratico di contrastare l’esclusione sociale e lo stigma nei confronti dei senzatetto. Siamo nel pieno degli anni dell’assalto neoliberista. Il progetto evolve in associazione per difendere i diritti di questo settore, fino alla nascita nel 1997 della cooperativa Piazza Grande in risposta all’estrema marginalità dettata dalla questione abitativa in città. Lo scopo è creare percorsi occupazionali dove i senza dimora si inseriscono come soggetti attivi.

La cooperativa dialoga con il Comune, trova spazi di agibilità e coinvolgimento politico, complice un ambiente amministrativo aperto alla messa in comune di spazi e risorse. Nasce un luogo fisico, il Laboratorio di Comunità, dove prendono vita progetti dal basso di grande impatto sociale ed economico. Pensiamo a “Gira la Cartolina”, un progetto di turismo alternativo dove le guide in giro per Bologna sono quelli che la città la conoscono meglio: i senzatetto. Un percorso di inserimento lavorativo, uno dei tanti, che cammina insieme a progetti come “Avvocato di strada”, o il Mercato circolare, le cucine popolari, i progetti di housing sociale. Un movimento policentrico, che ha i suoi interlocutori nei luoghi delle istituzioni dove, per tornare a Grabois, l’applicazione di politiche pubbliche permette ai lavoratori esclusi di lottare con efficacia contro sfruttamento e precarietà. Sulle pagine social del movimento non si fa mistero della buona relazione con alcuni ambienti del progressismo bolognese. Il dialogo pratico con quegli ambienti guida una valutazione oggettiva, centrata sulla partecipazione e la risoluzione dei problemi concreti delle fasce popolari. 

Concludiamo dicendo che in Emilia si fronteggiavano due visioni capitaliste. La prima a trazione trumpiana, rurale, imprenditoriale, con una Lega ancora fortemente padana. Le più ricche imprese cooperative, come quelle ittiche nel ferrarese, votano in massa per la Lega. Il secondo è un campo di carattere urbano, keynesiano, regionale-identitario (la storia antifascista, il buongoverno). Questo comporta dei veri e propri tilt. Ad esempio la storia amministrativa della città di Bologna testimonia una tradizione di apertura alle istanze dell’autogestione, una storia tuttavia tradita dal sindaco Virginio Merola. E’ una questione delicata a sinistra, come si evince dall’indignazione dei settori più radicali dell’area progressista nei confronti di Bonaccini, il quale due giorni dopo le elezioni aveva stigmatizzato su facebook un esponente di un’occupazione sgomberata. 

L’indignazione è stata espressa soprattutto dai consiglieri comunali di Coalizione Civica (opposizione di sinistra al Pd), movimento al quale è iscritta Elly Schlein, bomber delle preferenze alle regionali, candidata nella lista Coraggiosa con la coalizione di Bonaccini stesso. La lista ha avuto il suo apice a Bologna ma anche un record particolare sui monti piacentini: l’unico comune emiliano dove il primo partito non è il Pd né la Lega, nonché l’unico dell’Appennino dove non vince Lucia Borgonzoni, è Cerignale. Qui domina appunto la lista Coraggiosa, che candida il visionario sindaco. Statisticamente ininfluente, Cerignale ha 150 abitanti ma è un luogo famoso per la sua bellezza e per il suo modello economico popolare, servito al 100% da energie rinnovabili e prossimo a diventare una “cooperativa di comunità” per combattere disoccupazione e spopolamento con metodi di allevamento collettivo. Insomma il quadro è complesso e passa anche per i settori dell’economia popolare emiliana, che al clientelismo, al corporativismo, allo sfruttamento, rappresentano semmai l’unico antidoto efficace.