17 Ottobre 2020 - Lorenzo Natella - Divulgazione

Ius Soli, ius Culturae, ius Vivendi… Ne parliamo con il nostro Luciano Zerega

In questi mesi è tornato preponderante il dibattito interno alle seconde generazioni e agli italiani senza cittadinanza sulle opportunità, l’esigenza e le differenze tra Ius Soli, Ius Culturae, o un totale superamento del concetto di cittadinanza. Parte della militanza più attiva si batte da anni per la prima opzione: chi nasce in Italia o vi arriva da molto piccolo, è italiano. Esiste poi una posizione più riformista – passatemi il termine semplicistico – che valuta di non poter prescindere dai rapporti di forza in campo oggi in Italia e di dover pressare le istituzioni verso una prima riforma della cittadinanza legata al compimento di un ciclo di studi. Questa soluzione viene vista da molti come irricevibile, immersa in una visione di cultura uniformante, paternalistica e neo-coloniale. C’è poi una fetta di gioventù intellettuale che vede lo Ius Soli come tappa di un percorso verso il cosiddetto Ius Vivendi, cioè la pienezza dei diritti non determinata da alcuna condizione di cittadinanza legata allo Stato-Nazione.

È innegabile che alcune di queste posizioni stimolino domande con risposte complesse. Ci siamo allora chiesti, ad esempio, cosa pensano i figli di stranieri in Italia, nelle sfumature tra la costruzione di un’identità comune e un nuovo processo di nation-building. Il tema della cittadinanza sembra essere centrale per i nostri compagni e le nostre compagne a cui questa viene negata. I nostri quartieri sono già un terreno di sperimentazioni, che spesso anticipano e altre volte mettono in contraddizione le posizioni degli intellettuali sul tema. Ci sono persone che si sentono italiane ma non per questo abdicano a nessuna sfaccettatura del prisma delle loro identità. O per usare le parole di Papa Francesco, del proprio poliedro personale, complesso e irrinunciabile. Nel documento congiunto firmato da Bergoglio e dal Gran Imam Al-Tayyeb nel 2019, i due leader spirituali concordano sulla necessità di estendere nelle nostre società la piena cittadinanza ed eliminare il concetto di minoranze. Sono posizioni rilanciate anche nell’enciclica Fratelli Tutti e che spostano il dibattito sul piano universale.

Questo poliedro è un valore per le nostre lotte, e dico nostre perché nei quartieri popolari, nelle periferie, nelle provincie, negli hinterland, spesso su questo fronte si combatte insieme. La strada da fare è ancora tanta ed è fondamentale mettersi a disposizione dei soggetti esclusi, unici protagonisti della propria liberazione, ma già nei nostri quartieri di “black leadership” ne sappiamo qualcosa. Un esempio è proprio la persona che oggi intervistiamo: Luciano Zerega. Studente universitario e militante sociale, figlio di lavoratori dal Cile, membro della nostra associazione Officine Civiche, già candidato alle elezioni per il Consiglio comunale di Ciampino, ed oggi Presidente del circolo Anpi “Alunni e Brecciaroli” della nostra città. Non è l’unico ragazzo di seconda generazione a guidare una sezione dell’associazione dei partigiani, ma è uno dei più giovani in tutta Italia.

Luciano, parlaci un po’ di te! Rispetto a molti tuoi coetanei, tu ti ritieni “fortunato” perché hai la doppia cittadinanza, cilena e italiana. Perché credi sia una cosa importante?

Ciao Lorenzo, come hai ben detto sono tra i “fortunati” che ha la doppia cittadinanza. Mio nonno genovese partì un centinaio di anni fa per l’America Latina e quindi per Ius Sanguinis sono italiano, senza avere bisogno che io sia nato o cresciuto qui! Sono arrivato a Ciampino nel 2004, i miei genitori trovarono lavoro in zona, mia madre donna delle pulizie e mio padre pizzaiolo, e decisero di rimanere e radicarsi nella città del volo. L’importanza della doppia nazionalità la vedi quando cresci a scuola con altri ragazzi di svariate origini. Parti in gita con la classe e il tuo amichetto non può partire, un po’ per la trafila burocratica legata al permesso di soggiorno o semplicemente perché va richiesto un visto dal paese d’origine. Questo almeno più di 10 anni fa. Lì ti rendi conto che con il compagno di merende non sei diverso, ma tu stai sulla carreggiata veloce dell’autostrada e l’altro sulla strada di campagna. Una ingiustizia per i bambini che sono nati in Italia oppure che sono arrivati da piccoli, perché loro il paese d’origine non sanno spesso e volentieri cosa sia, il loro paese è l’Italia.

Sei presidente di un circolo Anpi, organizzazione che porta avanti un complesso di valori fondanti della Repubblica, cioè i valori internazionalisti e al contempo patrioti della Resistenza. Che significa tutto ciò per un ragazzo nato e cresciuto per i primi anni dall’altra parte del mondo? Come si coniugano i valori sociali e nazionali dell’America Latina con quelli repubblicani e costituzionali italiani?

Significa ricordarsi tutti i giorni che bisogna parteggiare, prendere posizione rispetto al dibattito nazionale ed internazionale, quindi far parte del paese e lottare. Ricordarsi di difendere la Costituzione, perché io vengo da un paese dove c’è stata una rottura violenta e sanguinolenta della costituzionalità. In Cile dicono “Lotta anche se non ti manca niente, perché ad alcuni manca tutto”. Quando cresci a casa con una mamma che ti dice che bisogna aiutare anche se hai poco e ascoltando “Todos Juntos” di Los Jaivas capisci che siamo un unico popolo, inteso come umanità. Non c’è nessuna minoranza, siamo tutti uguali ed ognuno è diverso dall’altro. I valori non sono così diversi tra Italia e America Latina, ci sono valori universali come la solidarietà, il lavoro, la famiglia, l’amore, la terra, la Patria. L’unica grande differenza è che la nostra Costituzione sancisce quello per cui oggi in America Latina si combatte per le strade, quindi sanità, educazione, ambiente.

Secondo te, è possibile che stia già avvenendo un percorso di conquista di una nuova soggettività italiana, meticcia, creola, creata dalle seconde e terze generazioni?

Assolutamente, la musica è un esempio. Nel panorama italiano abbiamo Ghali, Mahmood, Rancore oppure Hell Raton. Artisti che ascoltano anche i ragazzi per strada, che contribuiscono alla formazione culturale dell’Italia, pensiamo a Ghali con “Cara Italia” che canta “T.V.B Cara Italia, mia dolce metà”. Sono gli esponenti e i costruttori di una cultura meticcia italiana, capace di arricchire e di integrare linguaggi diversi. Per non parlare solo della musica, anche il nostro DoPoLis fa parte di un processo molto ben pensato di inclusione. Da bambino non ce l’ho avuto, così quando vedo i bambini del quartiere dove abito che partecipano a questo progetto ne rimango colpito e mi tolgo il cappello davanti ai volontari.

Pare che il simbolo delle lotte per la legge di cittadinanza sia diventato ultimamente Giorgio Marincola. Il partigiano nero ha una carica evocativa potentissima. È un’icona nazionale e al contempo migrante, anti-coloniale, che polverizza i paletti etnici ma non nega le diversità. Da presidente di un circolo Anpi, perché credi che ai giovani italiani senza cittadinanza abbia colpito così profondamente questa figura della Resistenza?

Perché si sono riconosciuti in una figura che non è tanto diversa da loro, un afroitaliano che ha combattuto per la Patria e per il popolo italiano, e sia chiaro la Patria per lui era la libertà e la giustizia. E’ un personaggio che evoca in loro l’Italia che vivono, sognano, respirano ma che ancora non è riconosciuta. Poi mica è facile credere che un altro mondo è possibile, ma se nel passato hai qualcuno che ha lasciato il segno, allora puoi iniziare a crederci e batterti. Come se fosse l’esempio da seguire e che ti fa dire “Lui si è battuto, ha contribuito ed è stato riconosciuto. Anche io lo voglio”. Quindi diventa il simbolo di una Patria che deve riconoscere i suoi nuovi figli, diversi ma uguali, che come me mangiano empanadas e bevono caffè all’italiana!