1 Agosto 2018 - Lorenzo Natella - Divulgazione

L’Africa dimenticata: conflitto, migrazioni, nemici comuni

A differenza di quanto sostengono sia il campo etnico-sovranista che quello imperialista e neo-coloniale, l’Africa ha bisogno del mondo così come il mondo ha dannatamente bisogno dell’Africa. Non c’è nessuno scontro tra un noi e un loro, non c’è nessun piano di sostituzione e soprattutto non c’è nemmeno l’ombra di quella che si definisce un’invasione. Quello che invece ancora esiste, è una lunga e spietata lotta di interessi contrastanti tra sfruttati da una parte e sfruttatori dall’altra, tra colonizzati e colonizzatori, anche attraverso l’inasprimento delle frontiere, utile solo a perpetuare il dominio dell’uomo sull’uomo. 

“Aiutiamoli a casa loro”, dicevano ieri quegli stessi che oggi, trovandosi a ricoprire un ruolo istituzionale, parlano di “piano Marshall per l’Africa”. Gli stessi che poco tempo addietro facevano affari illeciti con i diamanti in Tanzania – parliamo dei furfanti della Lega – oggi propongono un piano di investimenti e interventi industriali simile a quello che la Cina porta avanti nei paesi africani da alcuni decenni, e che sta alla base delle cause che spingono tanti lavoratori africani ad emigrare. Le false soluzioni di Salvini portano e porteranno solo altre migrazioni forzate, altra povertà e sopraffazione in Africa prima e in Europa poi. E qui ci limitiamo a parlare di ciò che accade prima del viaggio migratorio, sorvolando sulle scelte politiche vigliacche che i governi europei, e quello italiano in primis, compiono nel mediterraneo provocando direttamente migliaia di morti sulla frontiera sud dell’Europa. 

Il sovranismo regressivo di casa nostra rischia di farsi ancor più pericoloso dal momento che, oggi, ha iniziato a parlare di Africa. Non facciamoli partire, dicono le destre europee, ma collaboriamo con gli stati africani affinché le persone restino laggiù. Il discorso sembra semplice: le nostre risorse imprenditoriali, i nostri soldi e il nostro savoir-faire, piuttosto che venire impiegati nell’accoglienza, devono essere impiegati per il controllo dei confini, da una parte, e per lo sviluppo dei paesi africani dall’altra. Questo secondo aspetto, fondamentale secondo il piano di una certa destra moderna (da Orban a Di Battista) per trattenere in Africa le masse di potenziali migranti, dovrà essere perseguito facendo accordi con i governi africani e facendo impresa direttamente in Africa. Ed ecco che magicamente, gira che ti rigira, establishment e anti-establishment europei si trovano d’accordo. Renzi e Salvini, Macron e Le Pen, liberali e destre sociali, tutti insieme, oggi come nei primi anni del novecento, concordano sul fatto che il colonialismo non è poi una cattiva idea. Litigano solo sul chi, come e dove sfruttare le risorse africane. 

Il modello di cooperazione che ha in mente Salvini è esattamente quello contro cui ha combattuto tutta la vita Thomas Sankara, eroe africano troppo spesso citato a sproposito: un modello fatto di consulenti e burocrati che rendono i paesi africani letteralmente dipendenti dagli aiuti dei governi occidentali. E’ il modello dell’Eni, che da anni sfrutta i giacimenti petroliferi in Nigeria ignorando le richieste delle popolazioni locali, che si ritrovano fiumi e terreni contaminati. E’ quello delle corporation cinesi, alle quali i governi africani più corrotti regalano terre agricole spingendo migliaia di contadini a scappare. Sono gli accordi bilaterali tra Europa e Sudan, Libia, Eritrea e altri governi tra i più spietati d’Africa, ai quali viene garantita lunga vita in cambio del blocco del passaggio migratorio. Con l’effetto, però, che questi governi autoritari affamano e reprimono i propri popoli con i soldi dell’Europa, e dunque quei popoli scappano, emigrano. E’ un circolo vizioso di ipocrisia e affari sporchi.

Ma attenzione, fin qui è tutto alla luce del sole. Il problema è che negli ultimi decenni iniziano a nascere strane convergenze politiche tra il nostro continente e l’Africa, nuovi internazionalismi che si appropriano dell’immaginario e delle parole d’ordine di un certo socialismo anti-coloniale, ma che si collocano nell’universo dell’estremismo identitario. La teoria politica detta pan-africanismo oggi travalica i concetti occidentali di destra e sinistra, così troviamo all’interno delle stesse lotte, in Africa, chi parla di una liberazione dei popoli legata alla terra e all’uguaglianza, e chi parla di un’Africa esclusivamente nera, di una liberazione che si basa sul sangue e sulla purezza etno-linguistica o culturale. Nascono organizzazioni, intellettuali e uomini politici, che mescolano i temi tipici del terzomondismo con il suprematismo nero, l’omofobia, l’anti-semitismo. E trovano proficui rapporti con i gruppi dell’estrema destra europea. 

Non è il caso di Salvini, erede di un centrodestra italiano che da sempre preferisce interlocutori più istituzionali e filo-occidentali, ma non per questo meno spietati. Tuttavia anche in quest’area si fa spazio un discorso sotterraneo che guarda con interesse ai temi dell’Africa autarchica nera, perché rafforza il disegno di un’Europa bianca e altrettanto omogenea. E’ l’idea secondo cui nulla si mischia, nulla si contamina, ma si combatte un qualche malvagio ordine superiore che vorrebbe eliminare le nostre specificità culturali e biologiche, per poi vivere per sempre divisi gli uni dagli altri. E’ l’opposto del Sudafrica multicolore e democratico di Nelson Mandela, ma è l’immagine dello Zimbabwe isolazionista e vendicativo di Robert Mugabe. E’ la vicenda portata all’estremo dal despota ugandese Idi Amin, dittatore sanguinario e suprematista nero che fu rovesciato dalla Tanzania socialista, multietnica e multireligiosa di Julius Nyerere: presidente che fu lasciato solo anche dall’Unione Africana a combattere contro l’Uganda razzista, nel 1978-79, dopo aver accolto 20 mila rifugiati ugandesi di tutte le etnie. 

Ecco, dunque, quale parte della storia ci rappresenta. Quelli come noi, che sognano e lottano ancora per un mondo più giusto senza sfruttatori né sfruttati, quelli che oggi si rifanno autenticamente ad un anti-colonialismo democratico e sociale, devono tornare a parlare di Africa. Ad incontrare l’Africa, stringere rapporti e convergenze con le lotte africane, in un’ottica popolare e internazionalista, come abbiamo sempre fatto in passato nel sostenere le lotte di liberazione. Esistono ancora oggi migliaia di realtà africane che si battono per la terra, il lavoro, la salute, i diritti democratici, la sovranità alimentare, ma qui sono quasi del tutto sconosciute, nonostante tantissimi africani oggi vivono e lavorano con noi, nelle nostre città, e combattono insieme a noi per una vita più dignitosa in Europa. La maggior parte dei migranti che si iscrivono al sindacato in Italia hanno un background sindacale in Africa (ma anche in Bangladesh, in Pakistan ecc.). Una storia di lotte, di repressione, di sconfitte e vittorie, di cui noi tutti conosciamo troppo poco. 

Gli affari sporchi dei governi italiani in Niger

Un paio di esempi pratici. Il Niger è uno di quei paesi con cui sia il governo Gentiloni-Minniti che il governo Conte-Salvini hanno stretto alleanze per bloccare i flussi migratori, regalando un pacco di euro e inviando armamenti e soldati ad un governo autoritario e corrotto – formalmente un governo di sinistra, ma si tratta di una pedina nelle mani dei potentati occidentali – che spara sulle folle di manifestanti che chiedono giustizia e lavoro, incarcera i giornalisti, rastrella le sedi delle associazioni. La società civile in Niger, però, in questi anni si è organizzata, in particolar modo nell’AEC (Alternative Espace Citoyenne), associazione politica che ha portato migliaia di nigerini in piazza e che ha sempre denunciato i rapporti oscuri tra Niger e Unione Europea. Dal marzo 2018 la maggior parte dei suoi dirigenti è in carcere, anche per causa nostra, perché il Niger deve assolvere al suo compito di contenere i migranti all’interno di carceri-lager in mezzo al deserto, affinché non giungano in Europa. Chi denuncia viene azzittito, con i nostri soldi e con il consenso dei nostri governi. 

Le uniche realtà italiane che oggi hanno rapporti con l’AEC e con altre reti di associazioni nigerine, sono le tanto vituperate Ong. La toscana Cospe, ad esempio, non solo effettua progetti di cooperazione in Niger per migliorare le condizioni democratiche, i diritti dei giovani, l’accesso alle risorse, ma è impegnata in prima linea a sostenere le ragioni dell’AEC e denunciare quello che accade in Niger. Moussa Tchagari, segretario generale dell’AEC, è stato liberato il 25 luglio dopo quattro mesi di detenzione arbitraria, senza accuse formali e senza garanzie dei diritti elementari. Scrive sulla pagina facebook dell’associazione: “Per quattro mesi eravamo in prigione, ma siamo rimasti liberi nelle nostre teste, convinti dell’esattezza della causa per la quale siamo stati incarcerati. Non si può dire altrettanto di coloro che hanno orchestrato la nostra detenzione: sono prigionieri della paura, del loro attaccamento ai beni materiali, dei loro legami con le potenze imperialiste. Una cosa è certa, continueremo a batterci, e siamo certi che la nostra lotta non sarà vana. Oggi fa già paura, domani ci porterà i frutti dolci di un paese finalmente, veramente, sovrano e democratico. La lotta continua!”

Queste parole dovrebbero scuotere le nostre coscienze, perché i mandanti sono i nostri governi, l’obiettivo finale è garantire al Niger di svolgere il suo ruolo di cane da guardia dei confini europei, spostati sempre più a sud. Punto primo: è bene sottolineare la differenza tra quello che chiamiamo un sovranismo regressivo, come quello di Salvini e soci, che parla di frontiere chiuse e se la prende con i poveri di altri paesi, e un concetto progressivo di sovranità popolare, come quella di cui parla Moussa Tchagari, che ha come nemiche le forze armate straniere che militarizzano i confini del Niger per bloccare i migranti, che sono invece fratelli nelle lotte dell’AEC. L’associazione si batte per un Niger plurale e multietnico, democratico e libero dalle ingerenze occidentali. Salvini ha dichiarato a giugno di voler potenziare il piano di accordi con Niamey varato da Minniti, che consiste nello stanziare altre risorse e inviare specialisti militari italiani per addestrare le forze armate locali a compiere queste azioni vergognose, contro migranti e oppositori politici. “Meno i passaggi sono sicuri, più i migranti sono a rischio”, dice ancora Tchagari in un video che andrebbe visto e ascoltato per comprendere come il governo del Niger usi le stesse parole dei governi italiani, di ieri e di oggi, per giustificare l’abuso di potere sulla pelle dei migranti. Noi dobbiamo stare con l’AEC, con Moussa Tchagari e con tutti i compagni nigerini che combattono la nostra stessa lotta, contro lo stesso nostro nemico. Uniti potremmo avere più forza, ma purtroppo, ad oggi, non abbiamo mai iniziato una vera collaborazione tra organizzazioni politiche con obiettivi comuni.

manifestazione anti-governativa in Niger

Lotte contadine e femministe in Mali

Il punto politico non andrebbe mai perso di vista. Dobbiamo dire con forza che tutti i lavoratori del mondo devono potersi spostare liberamente se lo vogliono, come avviene invece solo per le merci che di quel lavoro sono il frutto, e che tutti i lavoratori devono poter restare nel proprio paese se lo vogliono, a combattere le proprie lotte e difendere la terra dove poter crescere i propri figli. Parliamo allora di paesi di provenienza e non solo di transito, come ad esempio il Mali. Dal sud del paese, dove non c’è la guerra etnico-religiosa che invece sconvolge il nord, provengono la maggior parte dei migranti maliani in Europa. Un dato che i propagatori d’odio europei, che si fingono ignoranti per i propri scopi politici, utilizzano per giustificare l’immagine di una migrazione che non avrebbe senso di esistere. Questi signori sanno bene che nel Mali meridionale c’è un conflitto che riguarda il possesso delle terre agricole, che le multinazionali rubano alle comunità rurali per poi ingaggiare bande di miliziani per ammazzare i contadini che non si piegano.

Anche in Mali la società civile è estremamente più organizzata e politicizzata di quanto si pensi. La CMAT (Malian Convergence Against Landgrabbing) e altre reti di associazioni contadine e comunitarie, si battono ogni giorno contro gli abusi delle multinazionali che costringono migliaia di maliani a lasciare le proprie case e partire verso altri paesi. Sono le zone dalle quali proveniva Soumalia Sacko, il bracciante e sindacalista ammazzato a fucilate in Calabria qualche mese fa. Soumalia veniva dalla regione di Kayes, un’area dove al furto delle terre si aggiunge il dramma del cambiamento climatico, figlio del nostro inquinamento scellerato: il deserto che avanza e si mangia le campagne del Sahel, rendendo quelle zone sempre più inospitali per la vita umana. I contadini maliani sembrano convivere con un destino di sfruttamento e morte, che può essere rovesciato solo dalle lotte sindacali, ambientaliste e democratiche in entrambe le estremità della migrazione. Lotte che devono urgentemente trovare una convergenza, contro lo stesso modello economico e gli stessi governi complici che già hanno trovato la loro ampia unità d’interessi. 

Ad aprile il Mali ha ospitato una conferenza di ADDAD, l’associazione africana per i diritti delle badanti e governanti, che in lingua bambara si autodefiniscono “Barakédens”, un nome che in tutto il continente evoca una lotta politica femminista e sindacale ben precisa. Le Barakédens, quest’anno, hanno aperto la loro conferenza con la presentazione di un convegno dal titolo “migrazione delle ragazze: problematiche e alternative”, fortemente incentrato sulla formazione giuridica delle militanti sul tema della tratta di schiave sessuali. Basta andare sulle pagine on-line di ADDAD per comprendere quali siano gli obiettivi e le preoccupazioni del movimento delle donne in Africa. Dare un’alternativa alle ragazze che incappano nella tratta, costrette a emigrare (per lo più all’interno del continente, perché ricordiamo che la grossa fetta delle migrazioni non è verso l’Europa ma verso altri paesi africani) per ripagare debiti contratti spesso sul posto di lavoro. Le realtà femministe, come sempre, sono avviate verso pratiche di convergenza delle lotte già molto avanzate, per cui ADDAD collabora con Ong e associazioni europee, soprattutto francesi e svizzere. Le analisi e le soluzioni che lo studio attento di ADDAD propone, possono infatti fornire un terreno di intervento dal basso, collettivo e partecipato, per chi in Europa si impegna ogni giorno nelle attività anti-tratta e nelle lotte accanto alle lavoratrici straniere, anche qui in Italia. 

militante di ADDAD

Convergere le lotte

Esperienze simili si moltiplicano oggi in quasi tutti gli stati africani, laddove nascono nuovi spazi di democrazia anche a seguito di guerre civili o resistenze contro le dittature. Dal Gambia alla Costa d’Avorio, dalla Liberia allo Zimbabwe. Sappiamo che occuparsi approfonditamente di Africa, o intessere relazioni attive con questo universo di esperienze, richiede uno sforzo molto grande per chi come noi ogni giorno si occupa di diritti degli ultimi in Europa. Ma è proprio per dare più forza alle nostre lotte, nelle nostre terre, che si rende necessario tornare a parlare di e con l’Africa, diffondere le lotte dei cittadini africani e delle organizzazioni che si battono per costruire un futuro de-colonizzato, stringere rapporti con le realtà politiche e sociali dalle quali provengono i migranti che ogni giorno vivono e lavorano al nostro fianco. Facciamo nostro l’appello di padre Alex Zanotelli, che invita i mass-media a rompere il silenzio omertoso sull’Africa, e rilanciamo quell’appello dentro il nostro mondo. Collettivi, associazioni, comitati, organizzazioni sociali, partiti, sindacati, comunicatori popolari, blogger, tutti dovremmo fare uno sforzo in più per diffondere e sostenere queste nuove lotte di liberazione nel sud del mondo. Queste non riguardano più un panorama lontano ed esotico, che ci spinge ad agire solo in virtù del nostro internazionalismo, ma oggi riguardano direttamente le nostre città, i nostri quartieri e i nostri luoghi di lavoro, dove l’Africa è già presente e può insegnarci a combattere le stesse battaglie contro nemici comuni. 

Le attività di cooperazione internazionale che svolgono alcune Ong a sud del mediterraneo e che spesso, come abbiamo detto, non hanno paura di schierarsi politicamente, sono un punto di partenza imprescindibile. Queste organizzazioni (la maggior parte) sono le uniche a fare informazione autentica sulle vicende locali e sul ruolo dell’occidente, le uniche che tentano di creare dal basso un futuro di opportunità per alcune aree, le uniche che provano ad invertire le tendenze, sempre insieme alle organizzazioni civiche in loco. E’ grazie a questa convergenza se oggi alcuni giovani disoccupati del Sahel hanno ottenuto la possibilità di lavorare la loro terra e creare micro-imprese agricole nei loro villaggi: la già citata Cospe opera in questo senso, sostenendo la lotta delle organizzazioni contadine per l’accesso alla terra, e promuovendo contemporaneamente la formazione agraria presso associazioni di giovani disoccupati e donne. Un altro caso è rappresentato dal network di movimenti di base No-Vox, che sta ottenendo in questi mesi una serie di importanti vittorie in Mali e Costa d’Avorio in merito alla redistribuzione delle terre ai contadini. Il network internazoinale No-Vox è nato proprio in Italia, a Firenze, in occasione del primo Social Forum europeo del 2002. Ciò nonostante, ad oggi nessuna realtà italiana partecipa alla rete e gli unici interlocutori organizzati restano le Ong.     

Ora tocca a noi. Così come abbiamo saputo diffondere le ragioni di compagni sparsi per l’America Latina o il Vicino Oriente, dalle lotte indigene alle rivoluzioni eco-socialiste, allo stesso modo è ora di approfondire e stringere relazioni con i compagni africani che combattono contro l’imperialismo dei governi europei, contro le multinazionali e le mafie che avvelenano le terre e vendono gli esseri umani come schiavi. Ferma restando la lunga lotta per la legalizzazione della libertà di movimento dei lavoratori (visti, corridoi aerei ecc.), dobbiamo tenere a mente che la nuova colonizzazione è la causa primaria della partenza di milioni di uomini e donne dalla propria terra, estirpati contro la propria volontà e cacciati via dalle stesse politiche di quelli che in Europa gridano “non li vogliamo!” Dobbiamo sbugiardare questi politici e questi discorsi; dobbiamo dire che l’illegalità del viaggio è la fonte primaria per il successo delle mafie dell’emigrazione; dobbiamo contrastare i nuovi colonizzatori che pianificano nuovi genocidi, con terre depredate e masse umane rinchiuse nei lager del Sahara. Se non lo facciamo noi, se non parliamo noi con l’Africa in lotta per la terra e la dignità, lo faranno i predicatori d’odio che, come detto all’inizio, immaginano un’Africa chiusa in sé stessa, scollegata dal mondo e soprattutto da un’Europa altrettanto isolata, monoetnica, debole e impaurita, entrambe sulla via di un’estinzione certa.