7 Novembre 2020 - Lorenzo Natella - Divulgazione

Le periferie che hanno sconfitto Trump

Nelle ore in cui questo articolo esce, il conteggio del voto popolare è in corso ma il Collegio Elettorale sembra cosa fatta. Al netto di possibili colpi di mano e scenari anti-democratici, Trump è stato sconfitto. La domanda è “da chi?” 

Mai come in questa tornata elettorale, il destino del mondo è stato nelle mani dei sobborghi popolari, multietnici, dei quartieri più malfamati e strutturalmente poveri di alcune grandi città del nord industriale degli Usa, come Detroit e Philadelphia. La vittoria del 2016 di Trump si era giocata soprattutto nella cosiddetta rustbelt impoverita negli ultimi decenni. Un’area culturalmente segnata dal crollo produttivo e occupazionale, per lo più bianca, metà piccolo borghese e metà operaia, espansione verso nord della Bible belt, la terra degli evangelici di origine anglosassone, e nuova frontiera della destra trumpiana che parla alla pancia dell’America in crisi.  

Nel bel mezzo di questa roccaforte neoconservatrice, sorgono le città cresciute sul vecchio modello fordista, quelle che rappresentano plasticamente la crisi dell’economia industriale del ‘900, con le fabbriche chiuse ed oggi trasformate in poli della cultura o dei servizi. Fabbriche che un tempo attiravano immigrati europei, ma anche tantissimi afroamericani, ispanici, arabi. Come in tutto il mondo, interi quartieri si svilupparono per confinare gli scarti umani dell’industria capitalista, gente che non ha mai conosciuto i privilegi del sogno americano. Quegli stessi quartieri oggi hanno salvato il candidato democratico. Il sottoproletariato urbano, quassù, lontano dalla gentrification di Los Angeles o di New York City, è stato verosimilmente decisivo per archiviare Trump. 

Tutto ciò nonostante Biden, nonostante la vittoria risicata di un partito democratico che non è riuscito a strappare ai repubblicani l’elettorato middle class impoverito, per il suo profilo di forza restauratrice, difensore del mercato globale e dello status quo interno. D’altra parte il popolo suburbano, nero, migrante, che vive nei ghetti e nei barrios dell’America profonda, non ha certo dimostrato un amore passionale per Joe Biden. Anzi, la vittoria del candidato dem non ha nulla della narrazione dirompente che hanno avuto Obama e Trump, o che suscitano personaggi come Ocasio Cortez, nei propri elettorati di riferimento. Semplicemente, rispetto al 2016, quel popolo di invisibili è andato a votare. 

Prendiamo uno Stato del Midwest che si è rivelato chiave per la vittoria di Biden. In Michigan il candidato democratico vince nelle contee urbane, come sempre da decenni. Il Presidente Trump stravince invece nelle vaste aree rurali, bianche, protestanti, alcune ricche altre molto povere, unite dal messaggio interclassista trumpiano. Terza categoria, secondo gli osservatori, sono le contee suburbane. Le zone a cavallo tra città e campagna, le vaste periferie, vere e proprie distese di disagio, disoccupazione, criminalità, violenza poliziesca, desertificazione sociale, assenza di welfare, inquinamento, malnutrizione. Queste hanno fatto la differenza. È in queste aree multietniche che si è vista aumentare di molto l’affluenza rispetto alla scorsa tornata. Un paio di contee di frontiera sono passate da Trump nel 2016 a Biden nel 2020, altre erano e restano dem, ma aumentano lo scarto di voti. Morale della favola, il Michigan cambia colore grazie al voto di queste periferie. 

Qualcosa di simile avviene in Pennsylvania, Wisconsin e Georgia. Sono le aree suburbane delle grandi città – al contrario dei più piccoli sobborghi ex industriali che votano Trump – ad allargare in modo decisivo la forbice per il candidato dem. In Georgia addirittura le contee intorno ad Atlanta hanno quasi raddoppiato i voti per i democratici rispetto al 2016, frutto di una campagna della black leadership locale per far registrare nelle liste elettorali le comunità povere storicamente meno coinvolte nel voto (ricordiamo che negli Usa non si è automaticamente iscritti come elettori, bisogna registrarsi prima). Un’operazione di giustizia democratica, che in Georgia porta la firma della ex candidata governatrice progressista Stacey Abrams. Così come in Michigan un ruolo analogo nella registrazione degli elettori strutturalmente esclusi lo ha avuto la parlamentare musulmana Rashida Tlaib, rappresentante dello squad di deputate socialiste con Alexandria Ocasio Cortez. 

Il probabile futuro Presidente deve molto al lavoro di queste donne politiche, che nel partito democratico non hanno certo vita facile. Ma lo deve soprattutto ai figli e alle figlie di quel popolo di periferia che campa con le briciole dell’industria americana, che nutre l’indotto, vive nelle comunità low income e lavora nelle piccole officine, nelle pulizie, nei ristoranti, nei food truck, nei supermercati, nelle lavanderie. Sono le città dove è rinato ed esploso il movimento Black Lives Matters, i quartieri dove viveva e dove è stato ucciso George Floyd. Proprio da quelle parti, all’indomani delle dichiarazioni eversive di Donald Trump sull’esito del voto, gli abitanti dei sobborghi sono scesi in strada paralizzando il traffico e scontrandosi con la polizia. Sono seguite altre città, facendo di Biden l’unico candidato moderato della storia ad avere, non per sua scelta, gruppi di manifestanti radicali e conflittuali che ne difendono l’elezione! 

Joe Biden dovrebbe ricordarsi di queste giornate. Dovrebbe ricordarsi che nei quartieri dove la polizia spara ogni giorno su chi vive alla giornata, si sono decisi gli esiti di queste presidenziali. È verosimile, tuttavia, che non se ne ricorderà, dal momento che ha sempre dichiarato di essere contrario al definanziamento della polizia e che la sua biografia politica non parla certo la lingua di un riformismo coraggioso. Allora perché questa gente l’ha votato? Non c’è dubbio che l’onda di BLM abbia spinto molti a votare contro Trump. Uno dei mantra che circolavano nel movimento era: scegliere il nemico migliore. In un contesto dove votare per uno dei due partiti è una questione d’identità finanche etnico-sociale, è bastato che le periferie andassero a votare. Centinaia di movimenti sociali si sono mobilitati per questo negli scorsi mesi. Un impressionante esercito di volontari ha battuto le strade dei quartieri multietnici di tutto il paese. Una sola consegna: questa volta registratevi e votate! 

Probabilmente i neri dei quartieri poveri continueranno a subire gli abusi delle forze dell’ordine, come succedeva anche con l’amministrazione Obama, e molto probabilmente morirà ancora gente in Medio Oriente sotto le bombe dei droni americani, senza soluzione di continuità. Tuttavia i movimenti, le periferie, le donne, le dissidenze, hanno dimostrato di saper scendere in strada, pressare e spaventare le autorità di ogni colore, siano esse Sceriffi, Sindaci, Governatori o Presidenti. Anche dopo averli votati, anzi, a maggior ragione, legando la loro rabbia sociale a quel patto che nell’etica politica anglosassone si crea tra elettore ed eletto. 

Questi giorni hanno svelato tutte le falle di un sistema che si è sempre creduto il più democratico del mondo, e invece patisce assai più di altri l’arretratezza dei propri meccanismi di rappresentanza. Il paese è più che mai spaccato a metà, spesso lungo pericolose linee di percezione identitaria. Donald Trump ancora adesso non ha accettato la sconfitta elettorale, lasciando aperto il rischio di un’escalation senza precedenti. I suoi supporter sono moltissimi, radicalizzati, quasi tutti armati. Dall’altra parte, nei quartieri popolari che oggi hanno votato Biden, la situazione è simile. Gli Usa evolvono in un periodo incandescente, reso ancor più drammatico dalla crisi pandemica e sociale che colpisce maggiormente proprio queste fasce di popolazione. In un tale contesto aperto e imprevedibile, il popolo meticcio dei sobborghi farà ancora parlare di sé.

Foto di copertina: Rashida Tlaib