26 Novembre 2019 - Lorenzo Natella - Divulgazione

Mogadiscio Connection

In questi giorni, dalle pagine social della comunità ciampinese, si è parlato di Andrea Millevoi, militare italiano caduto in Somalia nel ‘93 e sepolto a Ciampino. Si è avanzata l’idea di dedicare una via della città a questo ragazzo, che ci addolora aver avuto come concittadino solo dopo l’estremo saluto alla vita. Siamo totalmente d’accordo. Per questo abbiamo voluto raccontare quella storia, tutta la storia sin dall’inizio. Poiché il rischio delle altisonanti commemorazioni pronunciate dai pulpiti delle istituzioni, è quello di snaturare il ricordo di lui e degli altri figli delle nostre periferie mandati a morire in nome di un legame antico e coloniale tra due nazioni. Un legame che necessita oggi di essere riletto e rivoluzionato in nome dell’uguaglianza, dell’amicizia tra i popoli e della libertà per le nostre rispettive terre contro ogni imperialismo. 

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Somalia, novembre 1891, l’Italia ottiene il protettorato sulla città di Mogadiscio da parte delle autorità del sultanato di Zanzibar. Questa, insieme ad altre città costiere e ai sultanati di Obbia e Migiurtinia, costituiscono il primo nucleo della prima colonia del Regno sabaudo, la Somalia Italiana. I sultani locali, despoti in lotta tra loro per il controllo di risorse e rotte commerciali, credono di aver fatto un affare. Hanno invece svenduto la sovranità di quelle terre e di quei popoli per i successivi 70 anni. 

La Somalia Italiana è stata la più ribelle delle nostre colonie, pur non avendo una resistenza organizzata come in Etiopia. E’ una terra povera, che non attira molti coloni italiani come avviene sulla costa libica, ma tanto i governi dell’epoca liberale quanto il regime fascista ne sfruttano le risorse in maniera predatoria e feudale. A differenza dei possedimenti di Inghilterra e Francia – regimi imperialisti non meno odiosi e spietati – l’Africa italiana non sviluppa un capitalismo locale, né una burocrazia moderna o un sistema di amministrazione decentralizzato. Il colonialismo italiano al contrario impone un sistema fortemente dipendente da Roma, una burocrazia egemone e corrotta, un’economia statalista che non attira nemmeno gli investimenti della borghesia italiana. Sarà proprio questo sistema il modello di base sul quale si formeranno i regimi successivi. Gli esperti di storia coloniale italiana spiegano che non è un caso se i regimi più autoritari e oligarchici d’Africa siano nati proprio nelle nostre ex colonie. Quei colonnelli africani che avevano studiato nelle accademie militari italiane, saranno la classe dirigente di paesi lasciati allo sbando, senza strutture di governo, senza un corpus legislativo, senza tribunali e senza una solida impalcatura economica. Gheddafi in Libia, Siad Barre in Somalia, Afewerki che ancora governa l’Eritrea con il regime di terrore forse più spietato del mondo intero.   

Somalia, novembre 1993, viene ucciso il militare e agente segreto italiano Vincenzo Li Causi, informatore personale di Ilaria Alpi, personaggio ambiguo legato alla rete Gladio che di lì a pochi giorni sarebbe dovuto rientrare in Italia per testimoniare davanti ai giudici sul traffico d’armi e di scorie in Somalia. Quattro mesi dopo verrà uccisa la giornalista Ilaria Alpi insieme al cameraman Miran Hrovatin, che indagavano su questi traffici e su un eventuale ruolo dei servizi segreti e delle istituzioni italiane. Ma da dove venivano questi traffici? Cosa ci facevano ancora gli italiani in Somalia a distanza di un secolo dall’avventura coloniale? 

Un primo fragile governo democratico era stato rovesciato nel 1969 da Mohammed Siad Barre, ex Carabiniere del reparto italo-africano degli Zaptiè, il quale instaurò un sistema marxista che inizialmente promosse riforme sociali imponenti, emancipando il ruolo della donna, combattendo l’analfabetismo. Ma in breve tempo il governo Barre si tramutò in un regime sempre più autoritario, senza scrupoli, fondato sul culto della personalità e sulla persecuzione degli oppositori, adottando una visione di Islam reazionario. Appoggiato prima dall’Urss e poi dagli Usa e dall’Arabia Saudita, Siad Barre stringe negli anni ’80 buoni rapporti con le istituzioni italiane. Il governo Craxi arrivò a finanziare il regime somalo con la cifra astronomica di 550 miliardi di lire, tanto che il dittatore definì il suo paese la ventunesima regione italiana! Ma mentre la repressione di Barre si tramutava in genocidio, l’Italia iniziava ad intrattenere un commercio di armi (e pare anche traffici di rifiuti industriali) verso il paese africano, per mezzo dei servizi segreti di casa nostra. Un colonialismo portatore di morte, che non ha mai fine. 

Nel frattempo l’esercito italiano viene mandato a combattere in Somalia nell’ambito di una coalizione militare internazionale, all’indomani della caduta di Barre e dell’inizio di una guerra civile che vedrà contrapporsi i “signori della guerra” che si contendono il paese. Proprio come i sultani di fine ottocento, questi capi-clan mettono in atto una spietata carneficina ai danni della propria gente, scontrandosi l’un l’altro nella speranza di essere incoronati futuri dittatori di una Somalia che non sembra avere pace. La coalizione militare “Unosom” vede coinvolti paesi di ogni continente e di ogni tendenza politica, sotto l’egida dell’ONU, in un’operazione di guerra che, com’è ovvio, non troverà mai il favore della popolazione locale, la quale preferisce schierarsi con i signori della guerra per motivi tribali, o meglio clanici. Infatti in Somalia il conflitto non è tra genti di lingua, ideologia o religione diversa, ma è una faida tra grandi gruppi familiari contrapposti. L’Italia partecipa alla guerra nonostante le diffidenze internazionali; si dice che non possa tirarsi indietro a causa dell’ex ruolo coloniale. Il Parlamento vota quasi all’unanimità per la missione, nella quale vengono impiegati reparti speciali affianco a centinaia di semplici soldati di leva. 

E’ in questo frangente che vengono uccisi i militari italiani Andrea Millevoi, Stefano Paolicchi e Pasquale Baccaro, il 2 luglio 1993, in quella che viene ricordata come la battaglia del pastificio. Presso un vecchio stabilimento abbandonato della Barilla, simbolo del capitalismo coloniale di Roma, il contingente subisce un’imboscata e un accerchiamento da parte di miliziani e civili, probabilmente intenti a difendere il nascondiglio di uno dei massimi leader della guerra civile somala. Il mandante è proprio lui, il generale Farah Aidid, protagonista della storia della Somalia contemporanea. Poliziotto italiano negli anni ‘50, capo dell’intelligence di Barre nei ‘60, potentissimo signore della guerra nei primi anni ‘90. Aidid fonda nel 1992 l’Alleanza Nazionale Somala, un movimento/milizia tenuto insieme solo dagli interessi del clan Hawiye e da un feroce anti-comunismo. Sono loro ad aprire il fuoco a luglio dell’anno seguente contro i reparti dell’esercito italiano, lo stesso esercito che aveva addestrato Aidid negli anni del conflitto mondiale. 

Somalia, novembre 2002, viene riportato in patria il corpo di Starlin Abdì Arush, attivista somala molto legata all’Italia, uccisa in un attentato a Nairobi. Femminista, pragmatica, fervente oppositrice di tutti i regimi somali e dell’intero sistema sociale dei clan, toglie dalle grinfie di criminalità e milizie un numero esponenziale di giovani, dando loro un’educazione e un futuro. È stata lei a sbloccare la situazione successiva alla battaglia del pastificio. Starlin in persona, contattata dagli italiani, dirige i negoziati tra i miliziani e l’esercito italiano, che riesce così a riprendere il controllo del checkpoint del pastificio senza spargere una sola goccia di sangue. Già nei giorni precedenti la battaglia, i rapporti tra caschi blu e stato maggiore italiano si stavano facendo tesi, tra accuse reciproche e divergenze di strategia, ma da quelle trattative in poi le tensioni salgono ulteriormente. Anche le alte sfere di Washington si scagliano contro l’Italia. L’ambasciatore Usa in Somalia dirà espressamente che qualcuno aveva “frainteso il significato di missione di pace” e che gli italiani non stavano facendo “rispettare le regole”. Il desiderio degli Usa era la risposta armata senza condizioni. 

La battaglia intorno al pastificio era durata circa tre ore, con gli uomini di Aidid in netto vantaggio su un gruppo di soldati italiani impreparati ad un simile attacco. Cadono in azione tre ragazzi poco più che ventenni, tra cui un figlio delle borgate romane, Millevoi, sepolto al cimitero di Ciampino. Il bilancio sul lato somalo è terrificante, contando oltre 70 vittime tra miliziani e civili. Fu una carneficina evitabile? Gli americani sapevano che lì intorno si nascondeva Aidid? E’ vero che gli italiani avrebbero potuto catturare il signore della guerra qualche giorno prima, in base ad alcune informazioni riservate e senza spargimento di sangue, ma furono fermati dai comandi Onu? A queste domande aperte si aggiunse presto un nuovo dramma. Due mesi dopo la battaglia del pastificio altri due militari italiani, Giorgio Righetti e Rossano Visioli, vengono uccisi in un agguato presso il porto nuovo di Mogadiscio. La versione ufficiale arriva subito: ad aprire il fuoco contro il contingente italiano sono ancora una volta dei cecchini somali, invisibili e spietati. Ma troppe sono le cose che non tornano, tra cui la totale passività dei caschi blu presenti quel giorno e la decisione dall’alto di non effettuare l’autopsia sui due corpi. Sarà solo grazie alla tenacia dei familiari, di alcuni giornalisti e della commissione parlamentare Alpi-Hrovatin, che nel 2012 si fa strada una versione differente dei fatti. Ad uccidere i due militari sarebbero stati i nostri alleati, forse truppe degli Emirati Arabi, per motivi che non sono mai stati chiariti ma che si collocano nel periodo di massimo attrito tra l’Italia e i vertici Unosom. La maggior parte dei documenti sul caso sono stati coperti dal segreto di Stato.  

Nei giorni immediatamente successivi Bill Clinton ordina la smobilitazione della missione, il governo italiano ritira i suoi militari il marzo seguente. L’ONU dichiara fallita la missione in Somalia. Gli eserciti occidentali resteranno in realtà nel paese africano fino al 1996, con l’operazione United Shield, che sarà totalmente dipendente dalle direttive dei marines americani. Gran parte della missione italiana era stata caratterizzata da una buona dose di intelligenza e capacità diplomatiche, anche a costo di entrare in conflitto con i vertici alleati, come ricorda l’agghiacciante vicenda dell’agguato al porto. Ma già dalle ultime fasi della missione Unosom, in determinati reparti tra cui i parà della Folgore, si registrano episodi di violenza gratuita, disprezzo per le leggi internazionali e violazioni dei diritti umani. Le foto delle torture e i racconti degli stupri commessi da alcuni parà in Somalia negli anni ‘90 fanno il giro del mondo, scatenando l’indignazione in Italia e all’estero. Solo una persona, incastrata inequivocabilmente dalle foto, viene arrestata.  

Somalia, novembre 2018, una rete di milizie jihadiste organizza il rapimento in Kenya della cooperante italiana Silvia Romano. Le notizie si accavallano e si intrecciano senza avere ancora nulla di certo, ma da quello che trapela dalle fonti locali una cellula legata al gruppo terrorista somalo Al-Shabaab terrebbe sequestrata la 24enne italiana nel paese del Corno d’Africa.

La guerra civile non è mai finita, ai signori della guerra si sono affiancate le nuove Corti Islamiche, anche se spesso sono le stesse persone di sempre sotto sigle diverse. I militari italiani continuano ad essere presenti sul territorio, per lo più nell’ambito delle missioni internazionali contro la nuova pirateria somala: Quei pirati che a volte sono i fratelli o i figli dei vecchi miliziani, altre volte sono pescatori affamati che non vogliono vedersi sottrarre i diritti di pesca nel proprio mare dalle multinazionali occidentali. Multinazionali che l’Italia difende a mano armata in tutto l’oceano indiano, come ben ricorda l’episodio controverso dei marò in India. 

Non sappiamo se Silvia Romano sia stata scelta proprio perché italiana, ma sappiamo che il nostro paese deve ancora fare i conti con il proprio passato coloniale. Se lo faremo, riusciremo tutti a comprendere meglio chi siamo, a lottare contro i mercati globali e i nuovi assetti geopolitici degli Imperi. Parlare del nostro colonialismo ci aiuterà a capire ciò che accade in quelle terre lontane dove le strade si chiamano ancora Via Roma, Via Imperiale, Piazza Cavour. Perché può capitare infine, passeggiando per il cimitero del proprio Comune, di imbattersi in una lapide che ci racconta una storia. Quella storia ha bisogno allora di essere ascoltata e compresa, di diventare patrimonio comune nel rispetto dei caduti e senza retoriche sterili, per restare in silenzio di fronte al dolore di chi è sopravvissuto, perdendo un figlio o un amico. E pregando che ciò non debba accadere mai più, a nessuno, su questa terra.