24 Marzo 2020 - Lorenzo Natella - Divulgazione

Reti solidali e lotte sociali ai tempi del coronavirus

La distanza fisica e l’isolamento di questi giorni, esplicati in quella terribile quanto forse inevitabile locuzione di “distanziamento sociale”, stanno producendo effetti enormi sulla quotidiana tenuta della nostra socialità. Effetti che impattano in maniera diversa a seconda della classe, il genere, la professione, il quartiere di residenza. Il lock-down ha già prodotto femminicidi, nel senso che ci sono donne che sono state ammazzate in un contesto di convivenza forzata con uomini violenti, ampliando il dato già maggioritario della violenza di genere entro le mura domestiche. Pensiamo anche ai disagi psichici, alle depressioni croniche, alle persone che soffrono di attacchi di panico. Un ragazzo di Albano questa mattina si è tolto la vita; una tragedia di cui non si conoscono le dinamiche, ma pare certo che soffrisse di una depressione certificata. Pensiamo infine ai bambini e bambine che stanno subendo una discriminazione educativa, avendo scarso accesso alla didattica a distanza a causa di contesti abitativi e familiari proibitivi.

Quest’ultimo aspetto lo conosciamo bene. Qui a Ciampino portiamo avanti da alcuni anni una scuola popolare, Dopòlis, che nasce proprio per venire incontro alla difficoltà che, in condizioni normali, alcuni minori incontrano nel percorso di scolarizzazione. Famiglie numerose, abitazioni precarie e sovraffollate, genitori che non parlano italiano. Oggi a tutto ciò si aggiunge lo scarso accesso alla rete, l’impossibilità per alcuni anche di fare una ricarica telefonica senza rinunciare a un pasto, o in rari casi anche la totale assenza di supporti tecnologici: Tutti fattori che rendono la didattica a distanza complicata – se non impossibile – in determinati contesti sociali, in questi frangenti di crisi e in virtù del ritardo di un intero sistema-paese in merito all’alfabetizzazione digitale democratica. Ciò è amplificato dall’impossibilità di agire fisicamente per chi, come gli educatori, in situazioni normali funge da supporto alle famiglie e alla scuola. 

Da questa evidenza però nascono le prime risposte. La distanza fisica forzata sta producendo una reazione dal basso che risponde al bisogno di comunità e tende a tradurre l’utilizzo della tecnologia in alleato dei più fragili. Movimenti, associazioni e scuole popolari stanno tentando di connettere le famiglie attraverso strumenti online, potendosi anche permettere canali meno formali rispetto a un docente di scuola pubblica. Dalla chat di Whatsapp alla chiamata su Skype, arrivando ad attivare canali di vicinato o di condominio che permettono anche alle famiglie “meno connesse” di accedere per qualche ora alla rete internet di un vicino, per consentire ai bambini e alle bambine di avere una spiegazione di geografia, fare un compito di matematica col supporto degli educatori o anche solo partecipare a un laboratorio a distanza. E’ quello che stiamo facendo, con diverse difficoltà ovviamente, per non lasciare indietro nessuna delle famiglie coinvolte nel nostro progetto educativo. 

Come ogni crisi, la pandemia del Covid-19 sta innescando per reazione una risposta più o meno organizzata della solidarietà popolare. Non si contano nemmeno più le iniziative mutualistiche, in particolar modo quelle rivolte alla popolazione anziana più a rischio. A Roma le reti di spesa solidale per limitare gli spostamenti delle fasce più esposte, sono così capillari che ormai raggiungono ogni remoto angolo della città. Un supporto fondamentale è dato da chi già prima della crisi si occupava di raccolte alimentari, come l’associazione Nonna Roma, insieme alla quale abbiamo dato il via alla rete Casa Ciampino, composta da militanti di realtà sociali e politiche, ma anche tanti cittadini che vogliono rendersi utili in questi giorni, per andare a fare spese e commissioni alle persone che ne fanno richiesta. La rete è strutturata per singole zone con i rispettivi volontari che vi abitano, coordinati tramite chat e mappe online per limitare gli spostamenti sul territorio.

Infatti, in un periodo in cui si fa spesso riferimento al modello Corea del Sud (big-data, tracciamento dei contagiati, mappatura degli spostamenti) c’è nel mondo chi sta usando la stessa tecnologia per mappare le fragilità sociali, i bisogni, le richieste d’aiuto. Mettiamoci in testa che nessun modello asiatico è applicabile in occidente – men che meno nel mondo mediterraneo – per ragioni che risalgono a tradizioni socio-culturali, a partire dall’influsso del Confucianesimo sul rapporto individuo-società. Infine va ribadito come il modello sudcoreano prevede un ruolo preponderante di Samsung e altri colossi privati che gestiscono app e dati; le autorità sanitarie entrano in gioco solo in un secondo momento.  Un’applicazione molto simile a quelle usate in Corea per tracciare gli spostamenti dei cittadini, viene usata da alcune organizzazioni sociali delle aree povere di Washington, Stati Uniti, per ottenere mappe di quartiere da usare per portare la spesa alle persone anziane riducendo il più possibile gli spostamenti a monte. La differenza è tutta qui. 

Infine, allargando ancora di più le maglie, emerge la moltiplicazione capillare delle iniziative di solidarietà della gente comune, non organizzata prima della quarantena di massa. Laddove il capitalismo ha imposto una logica mercantilista che sembrava sedimentata, le comunità al tempo del Coronavirus hanno riscoperto l’importanza dello scambio e del valore non-monetario della condivisione. Con le distanze consentite, usando i dispositivi di protezione e consultando le autorità sanitarie, in tutta Italia brulicano le esperienze di condomini che hanno messo in piedi reti di baratto, socializzazione di orti privati, cucine che si mettono a disposizione, perfino condivisione gratuita di gel disinfettante autoprodotto. Questa è stata una delle prime iniziative solidali che si sono viste sul nostro territorio dall’inizio della crisi, da parte di una storica farmacia comunale di Ciampino. Una delle ultime in ordine di tempo è invece il “forno sociale” di una famiglia che ha iniziato a preparare il pane per il quartiere, solo in cambio di materie prime (farina, lievito, eventualmente legna). Una solidarietà che diventa rituale collettivo, civile e insieme spirituale, non a caso proprio nel momento in cui certi rituali preordinati sono stati messi in stand-by: dalla militanza politica (cum panis) alle funzioni religiose (fractio panis). 

Non sappiamo quando né come finirà questa emergenza sanitaria. Non sappiamo come cambieranno le nostre vite, anche se è certo che lo faranno. Da una parte sembrano farsi insistenti i rigurgiti securitari, le psicosi di controllo reciproco, la ricerca dell’untore, gli appelli alla militarizzazione delle città (cosa ben diversa dall’impiego di Forze Armate per aiutare nella gestione dell’emergenza sanitaria e sociale). Dall’altra però assistiamo ad un’espansione della solidarietà popolare, quasi come reazione di fronte all’impossibilità di incontrarsi fisicamente e collettivamente. Il senso di comunità emerge nei rispettivi piccoli mondi, nello spazio sempre più ristretto dai decreti emanati di settimana in settimana: la città, il quartiere, il condominio. Ma nelle nuove ritualità, così come nella rete di esperienze e buone pratiche, la comunità nazionale trova anch’essa una nuova centralità. Come sostiene l’antropologo Pietro Vereni, è poco probabile che i comportamenti sociali quali i flash-mob con l’inno d’Italia, possano portare ad un inasprimento del nazionalismo in senso regressivo. Questo perché manca un nemico univoco e riconoscibile, di specie umana, cui contrapporre il noi della comunità nazionale. Semmai, le notizie geopolitiche e la rispettiva lettura popolare possono portare a ridisegnare il senso comune rispetto alle alleanze internazionali. Per dirla in parole povere: ne usciremo quasi sicuramente con un gradimento ai minimi storici verso l’UE, ma anche con una ritrovata simpatia popolare verso nazioni, genti e culture lontane che hanno condiviso con noi questa sciagura. 

Per ora quello che vediamo è una forza mobilitante inaspettata in un momento simile. Perfino i sindacati confederali, comprese le sigle meno conflittuali, hanno minacciato lo sciopero generale qualora il decreto di chiusura delle attività produttive non essenziali dovesse capitolare di fronte alle richieste di Confindustria. Una situazione figlia dell’eccezionalità del momento, ma che ci fa sentire al riparo da eventuali pulsioni nazional-corporative o dalla paventata perdita di controllo sociale delle tutele costituzionali, in un periodo in cui le libertà individuali sono volutamente compresse. Ancora di più lo si vede nelle mobilitazioni sul web che chiedono un reddito di quarantena. Lo stesso vale persino per quei tanti arcobaleni che sono tornati a sventolare dalle finestre. E il fatto che sventolino spesso accanto al tricolore nazionale può essere solo un buon segno, il segno di una comunità che fa ricorso ai suoi simboli per celebrare la solidarietà, la sanità pubblica, la coesione popolare, la voglia di uscire con più forza dall’ennesima calamità. 

Sta a noi tutti tenere vivo lo spirito di mobilitazione e la voglia di solidarietà popolare per rispondere alle ricadute sociali che non si fermeranno con la fine della pandemia. Ma per farlo, per riuscire ad essere all’altezza di una sfida politica, economica e sociale che non si preannuncia facile, dovremo tornare ad incontrarci con più forza, usare i nostri corpi e riprenderci i nostri spazi, non come prima, ma molto di più! Tornando in Corea, il filosofo Byung-chul Han ha scritto recentemente che non possiamo lasciare la rivoluzione in mano a un virus, anche perché una solidarietà che ci tiene distanti non ci permetterà mai di cambiare il mondo. Se con le distanze sconfiggeremo il virus, sarà solo con il nostro forte desiderio di vicinanza, di contatto, di libertà, che ripareremo quelle disuguaglianze che l’epidemia non ha prodotto, ma certamente sta amplificando.