25 Maggio 2021 - Lorenzo Natella - Divulgazione

Unire i Parchi: la via dell’Acqua e delle Dee

Dopo anni di battaglie, alcune vinte e altre perse, in merito alla tutela e alla fruibilità dell’area paesaggistica e archeologica del Muro dei Francesi, siamo di fronte ad una tappa che potrebbe rappresentare un punto di svolta. L’importante proposta di legge regionale per la congiunzione dei Parchi dei Castelli Romani e dell’Appia Antica, infatti, include anche l’area della Tenuta del Muro dei Francesi di Ciampino. Con questa proposta, elaborata dai consiglieri regionali Marta Bonafoni e Marco Cacciatore, si intende istituire di fatto una cerniera tra le due aree protette, rappresentata da porzioni di territorio di Ciampino e Marino. Officine Civiche ha avuto modo di organizzare un interessante panel on-line sul tema, alla presenza dei consiglieri proponenti e di alcune delle autorità dei Parchi. 

Anche se ancora non è realtà, l’inclusione dell’area del Muro dei Francesi nella proposta regionale è stata possibile grazie alla lunga mobilitazione delle realtà ambientali e sociali del territorio. Tanto è stato detto sull’opportunità rappresentata da questa legge regionale, ma soprattutto tantissime sono le pagine scritte, i reportage, i sit-in, le iniziative pubbliche che abbiamo prodotto per ribadire l’importanza di questo legittimo patrimonio cittadino. Le potenzialità di questo luogo, infatti, passano anche per alcune delle tipicità geografiche, storiche e culturali di una terra troppo spesso dimenticata da chi la governa, ma da tempo fonte di appetiti insaziabili da parte di un potere predatorio che estrae valore economico dal suolo. Le caratteristiche di questo luogo hanno a che fare, tuttavia, anche con quello che spunta da sotto il suolo: l’acqua. Fino a tutto il medioevo considerati un bene di grandissimo valore, oggi i vari torrenti e fossi del sistema Almone che attraversano il territorio sono trattati quasi come un intralcio per le magnifiche e progressive sorti dell’economia del mattone e del suo indotto. 

Il fosso dell’Acqua Mariana risale ai tempi dei romani, che la chiamavano Aqua Crabra, quando il sistema degli acquedotti in questa zona affiancava le numerose sorgenti naturali che davano vita a canali e fiumi sotterranei, impiegati per irrigare le ville gentilizie dei dintorni. Nel 1122 il pontefice Callisto II, in un periodo di penuria idrica, decise di far incanalare queste acque per portarle ai mulini e alle fattorie, disegnando più o meno l’attuale percorso del torrente e dedicandolo appunto a Maria, la Santa Vergine. Lungo il suo corso sorge la Torre dell’Acqua Sotterra, una delle tante torricole medievali del territorio che un tempo servivano come presidio di guardia sulla via verso Roma. Più avanti troviamo la Mola Cavona, un mulino collettivo dell’XI secolo, che ancora conserva al suo interno la grossa ruota di pietra che fino ai primi del ‘900 veniva attivata dal fosso dell’Acqua Mariana. 

Attraversando la via dei Laghi abbiamo davanti il Muro dei Francesi, che conduce nella tenuta che appartenne ai Colonna. In questo sito sono state rinvenute le sette statue che raffigurano il mito delle figlie di Niobe uccise dalla dea Diana: un complesso scultoreo annesso alla villa romana di Valerio Messalla Corvino, frequentata da poeti come Ovidio, il quale potrebbe aver trovato ispirazione per le sue Metamorfosi proprio di fronte al gruppo scultoreo che ornava la piscina della villa. Questa era alimentata dalle acque del luogo, facenti parte del sistema idrico naturale del fiume Ferentino, sotterraneo, oggi scomparso e in parte integrato nel sistema del fosso della Patatona. Queste acque erano sacre alla dea Ferentina, un’antichissima divinità dei popoli Latini, personificazione della Madre Terra, protettrice delle acque fluviali e della fertilità. Gli studiosi sostengono che il culto di Ferentina, in queste zone, si sia in seguito sovrapposto a quello di Diana Nemorensis. Non è dunque da escludere che la scelta di Messalla di far bagnare le statue dei Niobidi da queste nostre acque locali, non fosse un caso. Le figlie di Niobe, irrorate dalle acque sacre alla dea che le ha uccise, rinnovano il mito della loro morte ogni giorno. La presenza della vasca è riconducibile all’allegoria della stessa Niobe, che Ovidio ci racconta si fosse trasformata in fonte d’acqua sorgiva per il troppo piangere di dolore. 

Queste acque furono poi incanalate dal cardinale Girolamo Colonna nel 1642 in un sistema di fontane nella zona che poi prese il nome delle Pantanelle, con lo scopo di fornire acqua per i campi, tra cui i “cipollari”, appezzamenti di terra gestiti da contadini poverissimi per la coltivazione delle cipolle, dei quali resta traccia ancora oggi nel nome del quartiere circostante: il Cipollaro. Da qui, seguendo proprio il culto della dea Ferentina, si entra nel Parco regionale dei Castelli Romani, attraverso il bosco del Ferentano che alla divinità era consacrato dai latini. In quest’area, nel Barco Colonna propriamente detto, si trova la sorgente “ufficiosa” di Capo d’Acqua, laddove inizia il corso dell’Acqua Mariana che andrà poi ad attraversare la periferia di Roma fino ad arrivare dentro i confini del Parco regionale dell’Appia Antica, dove confluisce nell’Almone. Nella suddetta fonte, la leggenda vuole che venne fatto annegare nel 651 a.C. il delegato della Lega Latina Turno Erdonio, per mano di Tarquinio il Superbo, mettendo di fatto fine all’indipendenza dei latini. 

Lo stesso percorso, partendo più in alto dove sgorgano davvero dal sottosuolo queste acque, sui versanti del vulcano laziale, ci riporta a un altro fenomeno storico tipico di queste parti: il brigantaggio. Il bosco della Faiola, che ospita molte delle sorgenti, era uno dei più noti covi di briganti nello Stato Pontificio. Figure iconiche come il sonninese Gasparone e l’abruzzese Marco Sciarra, temuti dal potere, eroi per le popolazioni contadine, trovavano rifugio quassù per poi scendere a valle seguendo il corso dei torrenti, verso la via Latina e l’Appia, punti nevralgici per assalti e scorribande. Abbiamo oggi la certezza che nella guerriglia dei briganti tra l’Appia e i Castelli fossero coinvolte numerose donne, spesso dimenticate dalla storiografia ufficiale o relegate al ruolo di “amanti” dei briganti maschi, mentre dagli atti giudiziari dell’epoca, rintracciati da alcune ricercatrici, possiamo desumere che si trattasse di brigantesse non meno attive dei compagni uomini e delle più note figure femminili nel Regno di Napoli. Al fianco di Gasperone le leggende popolari narrano della figura temibile di Gasparazza, icona leggendaria che servì a dare un nome alle brigantesse anonime del tempo. E’ invece esistita Gertrude De Marchis, ultima moglie di Gasperone, che ebbe un ruolo di primo piano nel gestire la diplomazia politica della banda della Faiola, fino al momento del tradimento da parte delle autorità nel 1825. 

Di fatto, il collegamento tra i due Parchi è anche una questione di narrazioni e mitopoiesi profondamente legate alle risorse idriche, o meglio: è una vera e propria Via dell’Acqua e delle Dee. La Tenuta del Muro dei Francesi rappresenta una tappa intermedia, ma importante, di questo percorso immaginario, evocativo, che rimette al centro della nostra storia le persone che hanno vissuto nei secoli in un territorio con abbondanti acque sorgive. Una condizione naturale che, unitamente al carattere vulcanico del terreno, donava una fertilità a queste campagne che oggi forse non riusciamo ad immaginare. Una situazione legata, nel sentimento religioso degli abitanti, alla spiritualità femminile, alla fertilità della terra, alle Dee, alle Madonne, presenze immancabili sul nostro territorio da sempre, ma anche ad immagini femminili non materne, fluide, asessuali, infanticide. Niobe e Diana, nel mito scelto per ornare la villa di Messalla, rappresentano forse al meglio questi poli.  

Immaginare un vero e proprio percorso, che ci racconti il nostro territorio con le lenti di un’antichità molto diversa da quella monodimensionale fatta di eroi, guerre, papi, consoli e trame di potere, ma dove trova spazio una mitologia anti-patriarcale, le lotte per l’acqua e quelle per la terra, anti-eroiche fino a diventare banditismo. Un percorso educativo e popolare da costruire come cittadine e cittadini, all’interno di contesti di partecipazione dove queste storie possano farsi carne viva e dunque azione di riappropriazione degli spazi. Strumenti come il contratto di fiume Almone, cui i nostri amministratori locali non sembrano intenzionati ad aderire. Oppure il nostro progetto di Ecomuseo territoriale, proposto insieme ad altre associazioni, che può essere una base programmatica per rileggere, reinterpretare e rilanciare dal basso la narrazione di questo possibile anello di congiunzione tra i due Parchi. E infine il Regolamento per la gestione condivisa dei Beni Comuni Urbani, strumento che può davvero rimettere questi luoghi dentro un processo di partecipazione popolare. 

Senza voler avere pretese scientifiche, storiografiche o urbanistiche, le storie diffuse che permeano il territorio devono farsi parte integrante delle nostre battaglie per una città pubblica, fruibile e inclusiva, che non si arrenda definitivamente alla perdita della bellezza. L’impegno deve essere fattivo da parte di tutte e tutti per evitare la svendita della città pezzo dopo pezzo e per immaginare un nuovo modello urbano sostenibile, pianificato e condiviso, libero dalla dannazione del cemento e dal monopolio privatistico a danno del bene comune. Un obiettivo che può essere raggiunto nel processo di unione dei Parchi, se riusciremo a farlo vivere con le risorse diffuse della comunità, decostruendo e reinventando il territorio fin dalla sua carica narrativa. 

immagine di copertina: Menote Cordeiro