19 Luglio 2017 - Lorenzo Natella - Beni Comuni e Territorio

Le ragioni globali contro il TAP

 Chi, in questi giorni, si trovasse ad andare in vacanza nel bellissimo Salento, tra Lecce e la costa di San Foca, potrebbe avere la fortuna di incappare in scene particolari, come un gruppo di moto-scooter e pedalò che accerchiano le barche di una multinazionale a pochi metri dalla spiaggia. Oppure, passeggiando per borghi e masserie, ci si potrebbe trovare nel bel mezzo di imponenti assemblee cittadine che continuano fino a notte fonda. Ma anche il turista più pigro potrebbe trovarsi a prendere il sole in uno stabilimento balneare sotto sventolanti bandiere bianche con una scritta rossa: NO TAP.

Il movimento cittadino nato a Melendugno si oppone da anni al progetto di gasdotto che, partendo da un luogo lontano nel Caucaso, arriverebbe dritto sulle spiagge pugliesi, attraversando e lambendo conflitti, interessi, luoghi e storie. Ma soprattutto, la lotta per le terre del Salento diventa la sfida ad un modello energetico che sta alla base di gran parte dei mutamenti globali più drammatici.
Le proteste contro il Trans Adriatic Pipeline in Puglia, l’eroica opposizione indigena contro il Dakota Access Pipeline negli USA, i pescatori del Baltico contro il North Stream, ecc. Un terzo fronte si è infilato in mezzo allo scontro tra le superpotenze esportatrici di gas naturale, in questa perenne guerra fredda post-ideologica che ha ripercussioni anche in luoghi come la Siria, dove la guerra è reale e tutt’altro che “fredda”. Parliamo del fronte delle comunità locali, che ci insegnano che per difendere i territori e i loro modelli produttivi, bisogna iniziare a “pensare globalmente” per imporre un paradigma mondiale rinnovabile e libero dalla schiavitù delle energie fossili. 

I sostenitori dell’opera ci dicono che il TAP sarà utile perché ci libererà dalle dipendenze della Russia di Putin nel nostro fabbisogno di gas. Quello che non capisce chi sostiene questa linea difensiva, però, è che alle comunità locali non importa un fico secco della bagarre internazionale del gas, che l’obiettivo è un territorio ad energia pulita e la difesa di un sistema agricolo e turistico di qualità, e che la dipendenza da una superpotenza piuttosto che un’altra non fa differenza. Perché, a tutti gli effetti, di questo si tratta. Il TAP è l’ultimo tratto del maxi-gasdotto conosciuto come Southern Gas Corridor, che parte dall’Azerbaijan – l’ennesimo regime dispotico che tiene sotto ricatto l’Europa con la scusa del gas e intanto calpesta tutti i diritti umani – e attraversa l’intero territorio della Turchia (TANAP, Trans-Anatolian Pipeline) prima di diventare TAP in Grecia. Il gas che scorre in questi lunghi condotti proviene da un giacimento nel Mar Caspio, Shah Deniz, gestito da compagnie britanniche, turche, azere, malesiane, russe e iraniane. In particolare, la compagnia russa Lukoil è proprietaria del 10% del giacimento: Alla faccia dell’indipendenza energetica da Putin! 

Per finanziare il Southern Corridor, l’Unione Europea ha identificato una serie di partner tra i vari piccoli regimi dell’area, quasi tutti alleati russi, nonché ovviamente i due regimi-chiave dell’intero progetto: l’Iran degli ayatollah e la Turchia di Erdogan. Ma attenzione, c’è dell’altro.
Il Southern Corridor potrebbe avere presto una serie di “affluenti”, per far fronte alla scarsa quantità di gas dell’Azerbaijan. Uno di questi è l’Arab Pipeline, un gasdotto esistente, che prende gas egiziano e lo trasporta attraverso la Giordania fino alle città siriane di Homs e Baniyas, entrambe in mano all’esercito di Assad. Il progetto è quello di collegare questo gasdotto con la Turchia quando la situazione in Siria sarà più “stabile”, operazione che porterà in Europa il gas egiziano attraverso una delle zone di conflitto più controverse della storia. 

Un altro collegamento è il Qatar-Turkey Pipeline, un gasdotto che ancora non esiste, perché Assad ha bloccato il progetto per tutelare gli interessi dell’alleato russo, ma le cose potrebbero cambiare a seconda dell’esito della guerra. Qatar, Arabia Saudita, Turchia e Unione Europea hanno interesse che questo progetto si realizzi perché garantirebbe un approdo di gas economico e per tempi molto più lunghi (il giacimento nel Golfo Persico è ben 11 volte più esteso di quello nel Mar Caspio). Anche questo gas, che attraverserebbe la Siria da sud a nord, andrebbe in parte a finire nel TAP, porta d’accesso al fabbisogno europeo. Dallo stesso enorme giacimento dovrebbe partire anche il “rivale naturale” del precedente gasdotto, il cosiddetto Iran-Iraq-Syria Pipeline, che Teheran e Mosca progettano per portare gas in Europa sempre attraverso la Siria. Ma anche questo progetto, per essere realizzato, ha bisogno prima che la guerra prenda una certa piega, e cioè che i territori interessati tornino saldamente in mano al regime siriano. Sempre più analisti si convincono che la realizzazione di questi due gasdotti sarebbe la causa primaria dietro il coinvolgimento internazionale nella guerra in Siria.

Non si tratta di tifare per una di queste due parti in conflitto, al contrario, qui si tratta di rigettare il conflitto stesso con tutte le possibili ragioni economico-produttive che incidono sulla vita di ognuno di noi. Le comunità locali che lottano contro i gasdotti in Salento, in North Dakota, in Grecia, nel Caucaso, ma anche i curdi siriani che provano a proporre un modello ecologista direttamente sul fronte caldo, stanno combattendo contro un gigantesco mostro a due teste. Tanto il fronte russo-siriano-iraniano, quanto quello euro-americano-saudita, sono due facce della stessa medaglia, quella dell’economia degli idrocarburi, delle energie fossili, dell’estrattivismo e della repressione di Stato. Contro questo modello unico globale, che produce devastazione territoriale e guerre, le comunità locali ci stanno mettendo davvero la faccia. Solo a pensare seriamente, per un momento, alla disparità di forze e di potere, viene la pelle d’oca! 

La risposta repressiva a Melendugno – come a Standing Rock o altrove – assume così un aspetto molto meno provinciale, per così dire. Le manganellate difendono interessi globali, le ruspe sradicano gli ulivi secolari per far posto agli affari delle grandi compagnie e si prepara il terreno affinché una piccola dittatura islamista post-sovietica, l’Azerbaijan, faccia il suo ingresso tra i grandi del mondo. Il gas naturale è un prodotto estratto al 90% per i consumi dell’emisfero nord. Il consumo di gas per uso domestico è drasticamente in calo in Europa, perché esistono metodi alternativi sempre più economici. Ma anche il grosso dell’utilizzo energetico di gas naturale inizia a calare grazie alle nuove tecnologie a energia pulita. Le superpotenze sopracitate rischiano di dover rinunciare alla loro supremazia fondata sull’estrazione, il commercio e la trasformazione di idrocarburi, per questo i gasdotti servono anche se non serve più il gas! Il coinvolgimento della ‘ndrangheta nel progetto TAP, rivelato da un’inchiesta giornalistica nei mesi scorsi, è solo l’ennesima prova di quanto i gasdotti servano interessi che ben poco hanno a che vedere con il lavoro, la qualità della vita o la democrazia. 

Questa estate hanno iniziato a incontrarsi, fisicamente, le varie resistenze locali contro il modello dell’energia fossile. L’Italia, dove la lotta No-Tap ha destato interesse in tutto il mondo, ha ospitato poche settimane fa una delegazione di indiani Sioux e attivisti No-DAPL dal North Dakota, per discutere con comitati e associazioni, attraverso tutta la Penisola, di prospettive d’azione globali e coordinate. Le cose cambieranno solo così, nell’incontro costante tra contadini salentini, tribù Sioux, attivisti greci, combattenti curdi, in una sola grande voce globale dal basso, per un futuro sostenibile, equo, rispettoso dei diritti e dei salari, libero dalla schiavitù energetica di “potenze” sull’orlo del baratro della storia.